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Provaci ancora Barcellona

Il 25. Novembre 2012 sarà ricordato come il giorno della (storica) indipendenza catalana? Questo lo sapremo solo nei prossimi giorni. Per ora, accontentiamoci di fare il punto della situazione.
 
Di che elezioni si tratta? Le elezioni che si svolgono oggi sono quelle regionali. A causa del particolare statuto della “generalidad de Cataluña” – la denominazione ufficiale della Catalogna, esse garantiscono enorme potere all’eventuale vincitore.
 
Se sono elezioni regionali, perché sono così importanti? Perché dovrebbero interessarci? Quando si parla della Catalogna, non dobbiamo dimenticare che parliamo di una delle quattro più ricche regioni europee: con Lombardia, Baden Wurttemberg e Rhônes Alpes, la Catalogna condivide un PIL superiore alla media europea di una percentuale compresa fra il 20 ed il 25%. Nel corso della crisi, nonostante le difficoltà sofferte dall’economia locale, la ricchezza relativa della Catalogna nei confronti del resto del Paese è enormemente aumentata, acuendo un distacco socioculturale che affonda le sue radici addirittura nel primo medioevo. Linguisticamente e culturalmente, la Catalogna rappresenta la propaggine più occidentale dell’area occitana, i cui confini più orientali si perdono nel nostro Piemonte, fra le colline del Monferrato, ed ha sempre guardato alla Francia più che a Madrid come proprio faro. Jordi de Saint-Jordi e Ausias March piuttosto che Miguel de Cervantes e Lope de Vega, insomma, ed entrambi in seconda posizione rispetto ai classici della letteratura francese ed europea in genere. Anche dal punto di vista economico, la Catalogna ha ben poco a che spartire con il resto della Spagna: terra di mercanti piuttosto che di proprietari agricoli, di marinai più che di cavalieri, la Catalogna è insomma storicamente più affine alle zone più evolute dell’Europa continentale che alla Spagna vera e propria. Durante il travagliato ventesimo secolo, la Catalogna fu uno dei capisaldi della sinistra – e quindi una delle aree sulle quali più duramente si abbatterono le repressioni franchiste. Con il crollo del regime dopo gli accordi di Vigo e la rifondazione della monarchia in senso democratico, la Catalogna ha quindi prosperato sulla base di una strana “santa alleanza elettorale” fra i movimenti di centro destra, prevalenti a livello locale, e la sistematica convergenza del voto verso il PSOE nel corso delle elezioni nazionali. Appoggio quindi ripagato da sempre maggiori concessioni verso l’autonomia della regione.
 
Una situazione quindi simile a quella cavalcata dai partiti di centro destra nei confronti delle regioni settentrionali del nostro Paese? In un certo senso, sì. Dopo la promulgazione del cosiddetto “Statuto di Catalogna”, la Comunidad Catalana vanta un livello di autonomia paragonabile a quello delle nostre regioni dopo la riforma del titolo V della costituzione. In effetti, proprio lo statuto di Catalogna è stato oggetto di fortissima contesa fra il PSOE (Partido Socialista dos Obreros Españoles) e il PP (Partito Popular) durante le ultime tre tornate elettorali. Nel 2003, José Luis Zapatero ed il PSOE vinsero sia cavalcando l’onda emozionale dell’attentato di Madrid, sia proponendosi come sostenitore delle autonomie regionali; nel 2007, lo stesso Zapatero fu veementemente aggredito da Mariano Rajoy per aver promosso ed approvato lo statuto (in uno dei dibattiti, arrivò a definirlo “criminale”), da lui definita non solo come anti-costituzionale ma anche intrinsecamente pericolosa ai sensi dell’unità nazionale; nel 2011, nel corso delle elezioni anticipate, Rajoy mise chiaramente fra i punti del proprio programma l’intenzione di annientare le riforme di Zapatero e di riportare la Catalogna (e così le altre regioni e comunità autonome) più strettamente sotto al controllo del governo centrale di Madrid. Di questo andamento ondivago della volontà popolare non dobbiamo stupirci troppo – anzi: non dobbiamo stupirci affatto. Fra 2003 e 2010, la Spagna vive un vero e proprio boom economico, costruito sulle delocalizzazioni delle grandi multinazionali, sulle costruzioni edili, su piccole e grandi speculazioni: in questa fase, la Catalogna ha rappresentato il motore dell’economia nazionale, capace di portare la regione ai vertici della ricchezza europea. Anche dopo la crisi, con un PIL equivalente al 121% della media europea, la Catalogna rappresenta la terza regione più sviluppata d’Europa dopo la Lombardia (141% del PIL europeo), il Baden Wurttemberg (126%) e saldamente prima del molto più celebrato Rhônes-Alpes francese (109%). Aggiunto al peso generale della regione sul Paese (7,5 milioni di abitanti: come dire 1/6 del totale del Paese a fronte di una superficie totale prossima ad un 1/10 del regno). Comprensibile quindi che il governo centrale fosse disposto a larghe concessioni: come sempre accade, quando le cose vanno molto bene , i problemi tendono a passare in secondo piano – per ripresentarsi con tutto il loro vigore al primo mutare dei venti. Ciò che è puntualmente avvenuto.
 
Tutto chiaro, dunque: le elezioni regionali Catalane sono estremamente importanti – a prescindere. Perché queste in particolare sarebbero fondamentali?
Ottima domanda. Fra 2011 e 2012, il governo regionale catalano (Generalidad de Cataluña) è stato costretto a rifinanziare il proprio debito con l’appoggio del governo centrale, a sua volta messo in crisi dalle generali difficoltà del Paese. Rajoy ha ovviamente colto la palla al balzo per minare i principi dell’indipendentismo catalano, avvalendosi di una sentenza favorevole della corte costituzionale che finalmente appoggiava i dubbi di incostituzionalità dello Statuto. In altre parole: il governo centrale di Madrid si sarebbe fatto carico dei debiti di Barcellona a patto che questa buttasse al macero lo Statuto e le sue autonomie. Condizioni chiaramente inaccettabili per il governo di Barcellona: dopo un lungo “tira e molla”, il 25. Settembre si arrivava infine alla rottura finale. Il partito di maggioranza relativa della Catalogna e terzo partito spagnolo, Convergència i Union – per altro di orientamento centro destra (ma molto più liberale del PP), si scontrava quindi con la più grave crisi della sua storia, in cui la generalizzata protesta contro i poteri forti propria della Spagna, la rabbia della marea montante di disoccupati, e le aspirazioni mozzate degli indipendentisti si fondevano in un rabbioso movimento di piazza. Ovvio il bersaglio: l’apparentemente indissolubile trimurti Madrid, Mariano Rajoy ed il PP (una specie di riedizione locale della nostrana “Roma Ladrona” di matrice bossiana, per intenderci).
 
Costretto da una situazione interna ormai ingestibile, il governo autonomo della regione, presieduto da Artur Mas (Barcelona, 1956) optava per le elezioni anticipate, originariamente previste per il 2014. Temendo una débacle storica (dal 1979, il CiU ha SEMPRE vinto le elezioni regionali catalane), il presidente del CiU schierava non troppo a sorpresa la carta dell’indipendentismo, mutando la sua storica posizione di “nazionalista tollerante e moderno”, favorevole ad una Catalogna parte della Spagna delle Autonomie (il vanto di Zapatero) nel cuore dell’Europa in quella di fautore “del diritto di ogni popolo di autodeterminarsi”. Detto in altri termini: in caso di vittoria, è intenzione di Mas dare inizio al percorso di secessione dal Regno di Spagna.
 
Scusami: mi sembra di risentire la storia della Lega Lombarda (poi Lega Nord). E sappiamo come siano andate le cose negli ultimi 10 anni.
Verissimo. Però la situazione è molto diversa, al di là delle apparenti assonanze. Prima di tutto, la Catalogna è effettivamente una nazione diversa da quella spagnola, con una sua storia e una sua specificità culturale – come abbiamo visto. Secondariamente, mentre l’economia delle regioni settentrionali italiane è comunque integrata con il sistema produttivo nazionale, quella Catalana ha piuttosto i caratteri di un corpo estraneo. Soprattutto, benché la Spagna sia una nazione relativamente giovane (almeno per i canoni europei: età media 40 anni circa), ancora molti sono i catalani memori delle purghe franchiste. Se a ciò aggiungiamo l’oltranzismo di Rajoy, tutt’altro che ben disposto verso il CiU e la Catalogna in generale, il mix risultante è abbastanza esplosivo.
 
Quindi potremmo trovarci di fronte ad una Catalogna fuori dalla Spagna?
Non correre troppo. Innanzi tutto, il CiU potrà portare avanti la sua politica indipendentista solo conseguendo una netta maggioranza parlamentare. Attualmente, il CiU è accreditato del 38.5% dei voti e nemmeno nei tempi “eroici” di Jordi Pujol fu capace di conseguire quella maggioranza assoluta necessaria ad un progetto così ampio. Secondariamente, il processo sarebbe tutt’altro che semplice e lineare. A differenza da quanto spesso ribadito dalla Lega (e così dai nazionalisti catalani), la Carta dell’ONU non garantisce che un generico diritto all’autodeterminazione (art. 1 e 55) e la carta di Helsinki del 1975 de facto limita a casi eccezionali la sua applicazione: absit iniuria verbis, definire la situazione dei Catalani in Spagna come similare a quella del Darfur rispetto al Sudan appare quantomeno esagerato.
Il processo di secessione dovrebbe essere iniziato da un referendum: secondo la costituzione spagnola, solo il Re può promuovere una consultazione plebiscitaria su indicazione del Parlamento (art. 92). Già questa premessa potrebbe essere sufficiente a far naufragare ogni ambizione. A dire il vero, una legge regionale del 2010 (Legge 4 del 17. Marzo) consente di attivare la consultazione referendaria se viene raccolto un numero di firme favorevoli pari ad almeno il 3% della popolazione: trattandosi tuttavia di un argomento sul quale il parlamento regionale non ha piena competenza, si dovrebbe rimettere la convocazione al parlamento nazionale – il che riprodurrebbe la precedente impasse. Come se non bastasse, se anche CiU decidesse di procedere ad oltranza, i suoi membri si macchierebbero di “alto tradimento” per violazione dell’art. 2 della Costituzione Spagnola: abbastanza da autorizzare l’intervento dell’esercito, con tutte le conseguenze del caso. Anche ammettendo che il CiU riuscisse a portare a termine i suoi propositi, il percorso del nuovo stato catalano partirebbe con una salita più rapida dell’Alpe d’Huez: una precisa FAQ dell’Unione Europea risalente al mandato di Prodi (2004) stabilisce in modo inequivocabile che un Paese risultante dalla secessione di un membro dell’UE non dispone in modo automatico dell’affiliazione UE: per i cittadini catalani, il trattato di Schengen (libera circolazione sul territorio europeo), l’Euro, così come i ricchissimi finanziamenti europei, base fondamentale della crescita economica catalana nell’ultimo ventennio diventerebbero carta straccia dall’alba al tramonto. Con l’aggravante di perdere all’istante l’appoggio economico della BCE, vitale per il superamento della corrente crisi economica interna. Per di più, secondo i criteri di Copenhagen (1993), uno stato europeo già membro dell’UE ha diritto ad imporre il proprio veto all’ingresso di un nuovo stato: azione che la Spagna, umiliata dall’azione catalana, eserciterebbe immediatamente. In breve: la Catalogna rischierebbe di dover finanziare autonomamente il proprio debito (il che è al momento impossibile), tramutandosi in un bersaglio privilegiato delle speculazioni internazionali, pressoché isolata a livello politico nel cuore di un’Europa ormai ostile.
 
E difatti i risultati elettorali…
E difatti i risultati elettorali che filtrano in queste prime ore mostrano che le aspirazioni indipendentiste di Mas siano clamorosamente naufragate. I catalani hanno concesso al CiU la maggioranza relativa, ma in netto regresso rispetto al 2010 (saldo netto compreso fra i 6 e gli 8 seggi in meno stando alle proiezioni delle 22.00) e quindi ben lontana dalla soglia di maggioranza assoluta. La contestuale crescita dei partiti autonomisti di sinistra non appare in effetti in grado di sostenere un movimento autonomista bipartizan.
 
Che accadrà adesso?
Difficile dare una risposta univoca. Personalmente, credo che la carta giocata dal CiU si ritorcerà contro la Catalogna. Il PP di Rajoy appare sempre più insofferente all’organizzazione federale del Paese, e non aspetta altro che l’occasione buona per demolire l’impianto di Zapatero. Avere agitato la bandiera dell’indipendenza rischia di avere sul governo di Madrid lo stesso effetto una bandiera rossa sventolata di fronte ad un toro infuriato. In un momento così critico per l’economia spagnola, tutto ciò rischia di avere effetti devastanti. C’è poi il problema della stabilità dell’area, tutt’altro che semplice da definire. A partire dai primi anni ’80, molte imprese tedesche hanno attivamente investito nell’area catalana sfruttando la dinamicità della popolazione, la flessibilità della normativa locale e soprattutto fattori quali la relativa stabilità del governo ed il basso costo del lavoro. Segnali piuttosto precisi provenienti dalla Germania svelano come le grandi case automobilistiche (Volkswagen AG, ma anche Ford e GM) meditino di smobilitare dalla Spagna in generale e dalla Catalogna in particolare (e, per la cronaca, anche a vantaggio del nostro Paese): atteggiamento che l’instabilità politica risultante non potrà che esacerbare.