Ma al di là delle sottiglieze giuridiche che macchiarono di sporco l’operazione Enduring Freedom già dall’incipit, di certo non ebbe una strada spianata da lì in poi. 2,769 morti tra le forze armate della Coalizione sia nel quadro dell’operazione Enduring Freedom che in quella dell’International Security Assistance Force (ISAF) , 12-14000 tra le vittime civili, 468 miliardi di dollari totali spesi fin’ora. Comportamenti in violazione dei diritti umani, uso della tortura, anche recentemente documentati da commissioni delle Nazioni Unite, comportamenti di combattimento di dubbia collocazione normativa, come l’utilizzo del fosforo bianco.
Il bilancio di tutto questo? Nonostante il presidente americano Barrack Obama abbia intenzione di presentarne un bilancio positivo al summit della NATO da tenersi a Chicago a maggio di quest’anno, la missione è stata fondalmentalmente uno flop. Il governo di Hamid Karzai è debole e gode di poco consenso tra la popolazione. I talebani sono stati sì respinti, isolati e ridimensionati, ma non vinti. La dimostrazione viene dalle discussioni “esplorative” aperte dal governo Afgano con i Talebani per raggiungere un accordo di pace, prevedendo le enormi difficoltà che le truppe afgane, nonostante l’addestramento ottenuto dalle forze americane,avranno nel periodo successivo al ritiro delle truppe internazionali. Già, perchè gli USA hanno da tempo progettato un cambiamento del ruolo della missione in Afganistan, da combattivo a quello di supporto. Ma per quanto lo riguarda, l’unica cosa certa è che dev’essere fatto entro la fine del 2014, quando la missione NATO in Afganistan ha ufficialmente fine. I tempi per tale cambiamento non solo non sono certi ma sono influenzati da numerosi fattori.
1) Inequivoco riconoscimento da parte del presidente americano, che la situazione economica attuale del Paese non può sostenere le spese di operazioni militari ai livelli condotti fino a questo momento, e che bisogna concentrarsi sulle “spese domestiche”
2) Le imminenti elezioni presidenziali rendono la situazione delicata non soltanto per il presidente in carica, ma anche per gli aspiranti. I sondaggi mostrano come il 55% della popolazione americana ( quindi rappresentanti tutti e 2 i bacini elettorali, sia quello repubblicano che democratico) non sia d’accordo con gli obiettivi dell’operazione, e più del 60 % pensa che sia stata una guerra che non si doveva nemmeno portare avanti. Persino i candidati presidenziali del GOP, partito tradizionalmente difensivo degli interessi americani nel mondo, Rick Santorum e Newt Gingrich richiamano strategie di ritiro ancor più veloci di quelle messe in atto dall’amministrazione Obama, nonostante precedentemente, posizioni repubblicane come quella di Mike Rogers, repubblicano del Michigan che è anche presidente della House Intelligence Committee, accusavano Obama di fare politica utilizzando l’argomento del ridimensionamento delle truppe.
3) Ormai da settimane alla Casa Bianca si sta parlando di un aumento del ritmo del ritiro delle truppe, ma oggi questa discussione sta avvenendo sotto una connotazione diversa, grazie (per colpa ) a 2 enormi battute d’arresto negli sforzi americani in afganistan: il rogo di materiale religioso islamico alla base aerea di Bagram utilizzato dai detenuti della base seguito da violente proteste, finite con un bilancio di 41 morti e più di 270 feriti, e il recente massacro compiuto dal sergente americano ( la cui identità è per ora tenuta segreta ) nel quale rimasero uccisi 16 civili, tra cui donne e bambini. Quest’ultimo episodio non solo ha ridotto enormemente la credibilità ( già piuttosto scarsa )degli USA e dei suoi alleati tra la popolazione afgana, ma ha anche inasprito considerevolmente i rapproti tra gli Stati Uniti e il governo di Karzai, il quale arrivò persino a definire le uccisioni dei civili “assassinii”. Pochi giorni prima erano riusciti a fare grandi passi avanti nei negoziati per la firma dell’ Accordo di Partnership Strategica, che permetterà ad un numero limitato di soldati americani di rimanere con semplici ruoli di supporto alle forze di sicurezza Afgane, per compiere raid contro obiettivi al-Qaeda collegati direttamente a progetti per attacchi contro gli USA, e anche un aiuto monetario annuale al governo afgano dopo la fine della missione NATO da parte degli USA e dei supi alleati, di 4,1 miliardi di dollari. La firma era prevista prima del vertice NATO di maggio, ma ora i negoziati, e quindi la firma stessa, hanno subito un forte rallentamento.
4) Se l’obiettivo del ritiro e del ridimensionamento dell’operazione è una cosa ormai scritta nella pietra, il come, quando e quanti sono questioni tutt’ora aperte. Gli USA hanno ancora 90 000 truppe in Afganistan, con 22 000 già programmati di fare il ritorno a settembre quest’anno. E nonostante la pressione per un ritiro più veloce ( quello economico e quello elettorale ) mr Obama deve fare i conti da una parte con l’immagine internazionale, di un ritiro responsabile e pianificato e non di una corsa verso le uscite. Un piano, sostenuto da Thomas E. Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale, è quello di annunciare il ritiro di alter 10 000 unità entro dicembre di quest’anno seguito poi da un’ulteriore riduzione tra le 10 000 e 20 000 unità entro giugno 2013. Tma dall’altra gli alti ufficiali vogliono mantenere truppe in Afganistan il più lungo possibile. Se dei tagli ai numeri devono essere fatti, essi consigliano di eseguirli alla fine del 2013, quando la stagione dei combattimenti, che dura di solito da primavera all’autunno, sia conclusa. Essi pensano che nei 18 mesi seguenti all’annunciazione dell’aumento delle truppe di 30 000 unità gli Americani non siano riusciti a consolidare le fragile conquiste nella Helmand e nelle altre provincie. Inotre, la riduzione del numero di contingenti presenti limiterà di molto le aree nelle quali possono essere rafforzate le operazioni di pacificazione. In modo particolare, è possibile che il piano di spostare truppe dal Sud e dal Sudovest verso le regioni volatili dell’Est lungo la frontiera Pakistana non possa essere portato a termine.
Il quadro insomma è complesso: nessuna decisione sembra portare verso una condizione favorevole, o comunque con danni collaterali limitati. Intanto il trasferimento della responsabilità alle truppe di sicurezza afgane rimane incerto, proprio per il grado di impreparatezza che quest’ultime sembrano manifestare. Secondo, la corruzione nel governo afgano è rampante, portando ancora più giù la sua credibilità presso la popolazione. Proprio per questi motivi, in tanti pensano che il ritorno dei Talebani sia imminente, forse già dal 2015. E sono tante le voci, desunte dall’interrogazione di prigionieri e di membri dell’al-Qaeda, che puntano esattamente a questo: i Talebani si stanno preparando. Proprio per questo la via che è meglio da seguire è un ritiro graduale e lento, e non accellerato come sono altri a chiedere soprattuto per motivi recenti. Sempre lento e graduale dev’essere anche l’assunzione da parte delle forze di sicurezza Afgane di un ruolo predominante, così da poter gradualmente assorbire l’esperienza necessaria per poter svolgere questo ruolo in modo autonomo. Ed è proprio per questo che non è auspicabile, così come ha specificato anche il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, un ritiro massiccio prima del 2014. Ciò che è certo, è che la partenza delle forze straniere non sarà pacifica, e sicuramente non porterà ad una fine delle violenze in quel Paese ormai abituato a vivere e subire una situazione incessante di conflitto.