Sia la Turchia che l’Egitto si caratterizzavano per una architettura laica dello stato, sul modello delle democrazie occidentali, ma con un forte sentimento religioso mai rinnegato ne dai politici ne dalla popolazione. L’inizio del nuovo millennio ha visto la graduale trasformazione dello stato turco, dove i successi ripetuti del partito Adalet ve Kalkınma Partisi, il partito per la giustizia e lo sviluppo, ha consentito a Tayyip Erdogan e Abdullah Gul di iniziare la rimozione di tutta una serie di garanzie che assicuravano la totale laicità dello stato, così come pensato dal padre della Turchia moderna Ataturk.
Dopo circa dieci anni di governo ininterrotto la velocità, imposta dal partito Adalet ve Kalkınma al cambiamento, ha subito un forte aumento. La voglia del ritorno alla potenza del periodo ottomano, affiancata dalla volontà di una islamizzazione dello stato ha modificato sia la politica estera sia la politica interna del governo turco.
Nella politica estera abbiamo assistito ad una interruzione della storia alleanza con Israele, una rapida presa di distanza dall’Egitto di Mubarak, un avvicinamento costante alle posizioni iraniane e infine l’offerta di appoggio politico, diplomatico e logistico ai ribelli che combattono il regime di Al Assad in Siria.
In politica interna Erdogan e Gul hanno fatto approvare dal parlamento leggi che permettono la connotazione religiosa all’interno degli organi dello stato e nelle scuole, ha promosso una restrizione dell’uso degli alcolici e alcune norme che potrebbero limitare le libertà personali dei turchi.
Infine dobbiamo ricordare i progetti urbanistico-religiosi, come la volontà di edificare nel centro di Istanbul la più grande moschea della Turchia, radendo al suolo il parco Gezi, scatenando la rivolta popolare.
Anche l’Egitto ha percorso, dopo l’elezione di Morsi, la medesima via ma in maniera molto più rapida. Quello che Erdogan aveva fatto in dieci anni, Morsi lo ha fatto in dieci mesi.
Ed in Egitto la popolazione e l’esercito hanno reagito con un colpo di stato militare sostenuto dal popolo.
Dobbiamo però ricordare che anche la Turchia ha alle spalle una lunga storia di ingerenze dell’esercito nella politica e anche una storia di colpi di stato, sia riusciti che solamente progettati.
I fatti dell’Egitto potrebbero così dare forza anche a quella parte di esercito che non vede con favore le riforme in senso islamista del partito per la giustizia e lo sviluppo. In modo particolare se alla fine dell’estate il popolo della Turchia tornasse a manifestare nelle strade e, sotto i colpi dei cannoni ad acqua caricati con agenti urticanti, chiedesse a gran voce l’intervento dell’esercito non è escluso che qualche reparto non senta la spinta a scendere nelle strade al fianco dei dimostranti.
È per questo motivo che in queste settimane Erdogan ha preso posizioni durissime contro i militari egiziani ed ha chiesto la convocazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha invocato la mano pesante da parte di Washington e ha cercato di addossare ad Israele la paternità e la pianificazione del colpo di stato di El Sisi.
In una Turchia che non è più la locomotiva economica della regione, che vede con disagio l’ingerenza di Erdogan nella guerra in Siria, che è alle prese con 100000 profughi siriani da assistere, lo scontento popolare potrebbe esprimersi nelle piazze prima che nelle urne, essendo la popolazione delle Turchia rurale ancora molto fedele al partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan e Gul.
Inoltre con la minaccia di una perdita di laicità dello stato e la conseguente limitazione di parte delle libertà personali, le possibilità di violenti scontri di piazza non è un’ipotesi ne remota ne irrealizzabile, e Erdogan questo lo sa.