La Turchia continua a rappresentare una polveriera. Che nella penisola anatolica la tensione fosse estremamente elevata lo si era evinto nel corso della scorsa settimana: 2 attentati, ad Istanbul e Kayseri, hanno spezzato oltre 57 vite. La destabilizzazione della Turchia, un tempo oasi di stabilità e sempre più assimilabile al caos dei paesi arabi contigui, amplifica ulteriormente l’ingovernabile ed irrisolvibile caos della regione del Medio Oriente. Eppure, mai e poi mai si sarebbe potuto immaginare che nel corso dell’inaugurazione di una mostra fotografica al Centro di Arte Moderna ad Ankara, sarebbe stato assassinato l’Ambasciatore della Federazione Russa in Turchia, Andrei Karlov. Le incognite sull’attentato alla alta carica diplomatica sono numerose.
Altamente improbabile che ci sia la mano di Erdogan dietro l’attentato; le relazioni bilaterali russo turche stavano progressivamente tornando alla normalità, seppur non alla velocità auspicata da Ankara. Oltre alla centrale nucleare di Akkuyu (progetto russo), la Turchia ha già accelerato i lavori anche del Turkish Stream, la pipeline che trasporterà, almeno nelle intenzioni, il gas russo verso l’Europa. Certo, la membership NATO di Ankara è probabilmente l’ostacolo principale che fa storcere il naso ai circoli politici russi e l’uccisione dell’Ambasciatore (dopo l’abbattimento del jet sovietico lo scorso novembre) costituisce un ulteriore grave shock per le relazioni bilaterali, per contingenze storiche lungamente caratterizzate da animosità. Ma non si può escludere che ambienti vicino ai golpisti e probabilmente appartenenti al clan di Gulen, FETO, agiscano nell’ombra -e il giovane Mevlut Altintas abbia rappresentato un mero strumento d’esecuzione- per disincentivare il nuovo corso e favorire un deterioramento delle rinnovate relazioni russo turche. Ciò nonostante, né Erdogan né Putin sono pronti a sacrificare un alleato dall’importanza strategica elevata e le dichiarazioni rilasciate sono pressoché simili.
Non mancano interrogativi circa il dispositivo di sicurezza nel centro di arte moderna di un quartiere centrale di Ankara, dove sono site le principali istituzioni e le rappresentanze diplomatiche di più paesi, e circa lo scarso quantitativo di uomini predisposti a protezione dell’ambasciatore della Federazione Russa. L’attentatore, il poliziotto di 22 anni Mevlut Atlintas (identificato dopo esser stato ucciso; poteva esser preso vivo?) è entrato nell’accademia della Polizia Rustu Unsal di Izmir nel 2014, quando l’autostrada della Jihad era già ampiamente in funzione -avviata da Erdogan in funzione anti Assad; non si può escludere che esso rappresenti il braccio armato di un’organizzazione stanziata in Siria con il quale abbia preventivamente stabilito contatti, né tantomeno che ci siano altri estremisti infiltrati nei dispositivi di sicurezza, forze dell’ordine, polizia e forze armate turche. Stando a quanto fornito dalla stampa turca, il giovane attentatore avrebbe frequentato un istituto appartenente all’imam Gulen ottenendo il pagamento della retta da parte di Sahin Ilgi -imprenditore vicino allo stesso ideologo autoesiliatosi negli Stati Uniti; sono inoltre state diffuse informazioni circa la non complicità di Atlintas nel colpo di stato avvenuto lo scorso luglio, perché in permesso preso regolarmente.
Il controllo sul territorio anatolico da parte di Erdogan è relativo. Sono molti, presumibilmente, gli elementi border line e pericolosi, sensibili al fondamentalismo islamico e pronti a reiterare attentati come quello avvenuto a danni dell’ambasciatore russo Karlov. La popolarità del Presidente della Repubblica turca, a causa dei continui attentati sul suolo anatolico che hanno portato alla morte di oltre 200 persone dall’inizio del 2016, così come l’estenuante guerra contro i separatisti curdi e le fazioni armate del PKK nel sud est della Turchia, diminuisce esponenzialmente e si offusca sempre più. C’è da aspettarsi un ulteriore stretta sulla società civile e sempre più arresti per i sospetti filo gulenisti/membri del clan FETO. Allo stesso modo, è verosimile ritenere che Erdogan possa strumentalizzare l’accaduto per scaricare la colpa sui curdi e mettere ancor più a soqquadro le regioni sud orientali dell’Anatolia già vessate dalla guerra; erano giorni che in Turchia, di fronte alle rappresentanze diplomatiche di Russia ed Iran si susseguivano manifestazioni contro il coinvolgimento militare dei suddetti paesi in Siria; Erdogan, si diceva fosse pronto ad accettare la permanenza -su impulso russo- di Assad in cambio di un più ampio margine di manovra contro i Curdi del Rojava funzionale al ridimensionamento dell’esponenziale potere che il gruppo nazionale curdo ha acquisito nel corso del conflitto -grazie anche al sostegno US- e per scongiurare qualsivoglia ipotesi di frammentazione dello Stato unitario.
Fornendo un’interpretazione di quanto detto dall’attentatore, inerente la situazione ad Aleppo ed in Siria, appare evidente l’esistenza di una frangia estremista dei ribelli definiti ‘moderati’ che non accetta il cessate il fuoco -non è un caso che anche l’ambasciata degli Stati Uniti ad Ankara sia stata colpita da colpi di arma fuoco nelle ore successive all’attentato- ed è ostinatamente desiderosa di continuare la lotta. L’approvazione della risoluzione 2328 alle Nazioni Unite, concernete l’invio di osservatori ONU per monitorare la fuoriuscita di civili (fra cui non è da escludere la presenza di membri delle forze speciali occidentali che coordinavano e sostenevano la lotta dei ribelli nei quartieri orientali di Aleppo) tra i quali si nascondono inevitabilmente parti consistenti delle suddette forze ribelli che, dirette ad Idlib, sarebbero pronte ad imbracciare nuovamente le armi. L’accordo per il cessate il fuoco, dunque, non è vantaggioso per i governativi e la violenza con cui questi ultimi hanno bombardato quella parte della città -uccidendo, purtroppo inevitabilmente, anche numerosi civili- deve essere letta proprio in questo modo: prevenire la riproposizione di un bastione anti governativo nell’estremo occidente del paese.
La Turchia rappresenta a tutt’oggi la parte anti Assad, seppur non senza ambiguità ed azioni contraddittorie, nei negoziati per la soluzione della crisi siriana, sostituendo gli Stati Uniti (indeboliti dagli orientamenti di politica estera obamiani e in un momento di transizione da un’amministrazione democratica alla nuova presidenza repubblicana guidata da Trump che persegue, teoricamente, un miglioramento delle relazioni bilaterali con Mosca -attraverso, magari, la stipulazione di accordi formali per la gestione congiunta delle aree di crisi, Siria in primis- e con la Turchia di Erdogan stessa). Non è un caso che proprio la diplomazia statunitense non sia stata invitata al summit di Mosca tra ministri degli Esteri e della Difesa di Russia, Turchia ed Iran che prevedeva discussioni circa ipotetiche soluzioni del conflitto in Siria. Non è da escludere che l’attentato possa esser stato portato avanti per sabotare il summit. Se, infatti, l’asse Damasco-Mosca-Teheran ha avuto la meglio sui ribelli ‘moderati’ lo deve anche all’ambiguo atteggiamento turco che nel perseguimento dei propri fini di politica estera ha chiuso gli occhi su quanto avveniva ad Aleppo.