-di SE Giulio Terzi di Sant’Agata-
Gli ayatollah iraniani dovranno scendere a patti con le regole della comunità internazionale. E ciò appare molto più realizzabile di quanto si possa credere.
Il 5 agosto scorso, il portavoce del gabinetto del presidente iraniano, Ali Rabiee, ha tenuto un briefing con i giornalisti e ha menzionato esplicitamente il conflitto di lunga data del regime clericale con il suo nemico interno, il “People’s Mojahedin Organization of Iran” (PMOI/MEK). Ciò sembra discostarsi dalla normale politica del governo di tacere su tale questione al fine di minimizzare la minaccia che il PMOI/MEK pone al sistema teocratico.
Istituito come movimento contro il regime dello Shah a metà del XX secolo, il PMOI/MEK fu una delle forze maggiori della rivoluzione iraniana, ma si distaccò immediatamente dal governo emergente dopo che quel movimento fu cooptato dall’ayatollah Khomeini. Il PMOI/MEK era allora, e rimane tutt’oggi una voce di spicco per un governo democratico, e la sua visione è stata formalizzata nel piano in 10 punti del leader dell’opposizione iraniana, Maryam Rajavi.
Il PMOI/MEK è pienamente fiducioso che l’attuale regime si stia avvicinando a un crollo definitivo, il che aprirà la strada all’alternativa che essi rappresentano. Questo è stato forse il messaggio centrale di un incontro tenutosi il mese scorso ad Ashraf-3, un complesso recentemente completato in Albania che ospita 3.000 membri dell’organizzazione, che sono stati trasferiti dall’Iraq dopo aver vissuto per anni sotto la minaccia del regime iraniano.
Al raduno di Ashraf-3 hanno partecipato una grande e influente coalizione di governi nazionali, locali, personalità e istituzioni di tutto il mondo, che condividono appieno le posizioni del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana che intendono trasformare l’Iran in un paese democratico guidato dallo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e la libertà democratica.
L’Iran non ha mai conosciuto questi valori in alcun senso significativo. Il principio fondante il governo della Repubblica islamica è il “veleyat-e faqih”, il potere assoluto dei “guardiani” religiosi. Il leader supremo Ali Khamenei ha l’ultima parola su tutte le questioni e i candidati vengono esclusi se non riescono a dimostrare una lealtà abietta.
Per questo motivo, il MEK ha messo in campo numerose iniziative di protesta, tra le quali il boicottaggio delle elezioni. Prima delle elezioni del 2017, gli attivisti del MEK hanno rischiato l’arresto e lunghe pene detentive divulgando appelli pubblici, anche online, invitando le persone a “votare per un cambio di regime”.
La popolarità e la forza di questo messaggio ha trovato la sua massima espressione qualche mese più tardi, quando sono scoppiate le proteste in tutte le principali città. I partecipanti hanno intonato slogan come “morte per il dittatore” e hanno espressamente respinto sia le fazioni politiche di “linea dura” sia quelle “riformiste”. Questo diffuso consenso sulla necessità di un cambio di regime ha spinto Khamenei a riconoscere il ruolo organizzativo del PMOI/MEK e delle “unità di resistenza” che operano in tutta la società iraniana.
Questo è stato senza dubbio il punto di svolta che ha minato la narrativa del regime secondo cui il PMOI/MEK non è in grado di presentare una seria sfida alla dittatura clericale.
Le recenti osservazioni di Rabiee alla stampa nazionale hanno smesso di ammettere l’ansia del regime, e lo stesso si può dire delle precedenti osservazioni di Mostafa Pour-Mohammadi, consigliere del capo della magistratura che è stato ministro della giustizia durante il primo mandato dell’attuale presidente Hassan Rouhani.
Pour-Mohammadi è diventato tristemente famoso, sia nella comunità attivista in Iran sia tra i difensori dei diritti umani in tutto il mondo, nel 2016 quando si prodigò nella difesa del “più grande crimine della Repubblica islamica”. Queste erano le parole di Hossein Ali Montazeri, un funzionario iraniano scelto per essere il successore di Khomeini, fino a quando non è uscito dal regime per l’esecuzione sistematica di prigionieri politici nel 1988. In pochi mesi, circa 30.000 persone sono state messe a morte per il crimine di slealtà e le uccisioni si sono concentrate in modo sistematico sugli appartenenti al PMOI/MEK.
Le osservazioni di Pour-Mohammadi descrivevano questi omicidi come l’adempimento del “comando di Dio”, e la sua più recente intervista ha ribadito l’assenza di rimorso mentre tracciava parallelismi tra i massacri del 1988 e la situazione attuale. “Non abbiamo alcuna ambiguità riguardo al PMOI/MEK”, ha detto. “Siamo in tempo di guerra. Ora non è il momento di parlare. Ora è il momento di combatterli. ”
Molto è cambiato da allora. Ma una cosa che rimane invariata è il ruolo del PMOI/MEK di principale avversario del regime di Teheran, cresciuto così tanto nel potere e nell’influenza che è stato in grado di organizzare e condurre una rivolta nazionale solo l’anno scorso. Con Teheran che si sta ancora riprendendo da quella rivolta, è più difficile che mai per i funzionari del governo negare la realtà della sfida che stanno affrontando. Nelle conversazioni con controparti straniere, continueranno sicuramente a sviare il discorso, ma se il mondo presterà attenzione alle dichiarazioni rese in patria, sarà chiaro che hanno paura.
Tale paura rappresenta una chiara opportunità per la comunità internazionale, così come per il popolo iraniano. Sottolinea l’esattezza della strategia americana di “massima pressione” e chiede ad altre nazioni democratiche di adottare strategie simili. In questo modo, potrà venire alla luce in maniera definitiva e netta quella vulnerabilità che l’Iran da tempo cerca di negare e sarà chiaro così al popolo iraniano che l’Occidente non si schiererà con i mullah.
Ora è molto più difficile per i mullah negare che esiste già un’alternativa al loro sistema teocratico e che la resistenza popolare è il loro tallone d’Achille.