In Sardegna si è passati dai 13.018 GWh consumati nel 2008 ai 9.262 GWh consumati nel 2013, una diminuzione del 28,85% in meno di cinque anni.
In attesa che Terna Spa rilasci i dettagli dei consumi, la correlazione di un tempo, ovvero crescita di consumi elettrici e crescita economica, è sempre ben rispettata, constatando che la disoccupazione ha toccato un nuovo record storico, arrivando al 29.8% della forza lavoro, con circa 147.000 persone che, in Sardegna, non lavorano.
Analizzare i dettagli di un simile tracollo economico sarà il non facile compito degli storici e degli economisti, in questa sede ci limiteremo ad una brevissima cronistoria di come si è potuto arriva a tanto.
La moderna storia industriale della Sardegna inizia con la cosiddetta “legge del miliardo” (6 novembre 1924), attraverso la quale il regime fascista, allora agli inizi, intendeva avviare quelle opere pubbliche necessarie per “modernizzare” l’habitat sociale della regione.
Tra le varie opere messe in cantiere, la realizzazione delle grandi opere elettro-idrauliche del Tirso e del Coghinas misero a disposizione energia elettrica in quantità tale da poter muovere i macchinari delle nuove industrie chimiche e manifatturiere, e tanta acqua per irrigare quelle campagne rese sterili per via di ataviche siccità. Tale abbondanza di energia elettrica attrasse capitali industriali e stimolò la classe imprenditoriale sarda a concepire e portare avanti interessanti progetti, quali, ad esempio, l’ampliamento del porto di Cagliari con la realizzazione di nuove dighe foranee con l’intento di «far diventare Cagliari la “Marghera” del Tirreno, un grande scalo di smistamento per il traffico mediterraneo e di far sorgere lungo il canale industriale una serie di stabilimenti per la produzione di semilavorati e lavorati alimentati dalle materie prime di produzione isolana».
Purtroppo per la Sardegna, arrivò prima la grande crisi del 1929, e quindi, il 18 novembre 1935, giorno nel quale divennero operative le sanzioni economiche decretate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia, colpevole di avere aggredito l’Etiopia. Niente più armi, niente crediti, niente materie prime, non si importano più merci italiane. L’Italia si scopre autarchica. Tale evento ha segnato il destino industriale della Sardegna.
La Società Carbosarda, costituita dal governo nel 1933 rilevando dagli imprenditori privati tutte le concessioni minerarie per l’estrazione del carbone in Sardegna, assunse quindi un ruolo chiave nella gestione della politica energetica nazionale. La guerra, persa, cambiò il panorama internazionale. Ma nonostante ciò, il decennio 1951-61, portò notevoli mutamenti: se pur tutte le attività minerarie erano in deciso calo occupazionale, superate dal comparto edile, gli stabilimenti chimici e tessili mostravano di essere in progressiva ascesa, con un valore delle produzioni che aveva già superato i record stabiliti nell’anno 1939. La potenza energetica utilizzata da questi stabilimenti era cresciuta del 60%, mentre, per contro quella assorbita da parte degli impianti minerari era scesa dal 53 al 47%.
Le stesse produzioni elettriche erano notevolmente cresciute, passando da 270 a 650 milioni di Kwh, di cui il 56 per cento d’origine idraulica (merito questo dei nuovi impianti dell’alto Flumendosa e del Taloro).
Il “carbone bianco” delle centrali idroelettriche rappresentava quindi l’unico vero propellente per l’insediamento di numerose fabbriche e stabilimenti elettrochimici.
L’aver constatato che l’energia a basso costo rappresentava il volano per tutte le altre attività, indusse la classe politica di allora a teorizzare politiche di sviluppo industriale basate sulla possibilità di rendere possibili maggiori disponibilità energetiche e prezzi più bassi per la forza motrice elettrica. Il vincolo da abbattere, a giudizio dei governi nazionali e delle giunte regionali degli anni della ricostruzione e della rinascita, consisteva nella nazionalizzazione/regionalizzazione” delle fonti d’energia e nell’abbattere il monopolio privato nell’elettricità.
Nel 1962, la Carbosarda, proprietaria delle miniere di carbone e dell’annessa centrale termica dal 1954, trasferì i suoi impianti (centrale e miniere) all’ENEL.
Il primo atto dell’ENEL fu quello di bloccare l’attività estrattiva (alla faccia di tutta la classe politica che si era spesa per tenere in vita, allora come oggi, il posto di lavoro e non il lavoro), ritenuta decisamente anti-economica. A questo seguirono annose proteste dei minatori.
Pertanto, la classe politica regionale e nazionale pensò bene di farsi carico nel trovare soluzioni occupazionali. Lo fece attraverso la Carbosarda, che nel frattempo era passata sotto il controllo dell’EFIM, e gli indennizzi avuti dalle cessioni all’Enel furono investiti nel comparto della produzione dell’alluminio. Tra il 1969 ed il 1972 si realizzò, a Portovesme, un grande polo metallurgico che nelle intenzioni doveva assorbire i dipendenti delle miniere del Sulcis e dell’Iglesiente in fase di chiusura. Per alimentare le nascenti industrie fu impostata la prima grande centrale termoelettrica, sempre in Portovesme, per “bruciare” due milioni di tonnellate di carbone delle miniere del Sulcis e per produrre oltre tre miliardi di kWh da immettere sul mercato a metà dei prezzi allora correnti. I primi due gruppi termoelettrici da 240 MW entrarono in servizio commerciale nel 1965-1966. Tale centrale doveva rappresentare la chiave di volta «per richiamarne altre energy intensive e ridare competitività al carbone sardo». Di Carbone sardo, però ne bruciarono ben poco, in quanto l’Enel si rifiutava ostinatamente di utilizzarlo.
Nel frattempo, e sempre a cavallo degli anni ’60 e ’70, in tutta la Sardegna si assiste a un fiorire di industrie legate alla chimica. Nasce il polo industriale di Porto Torres, quello di Ottana e il polo Petrolchimico di Sarroch. Sono industrie che lavorano 24h su 24h, e che necessitano di tanta energia elettrica a basso prezzo. Nascono quindi le Centrali Elettriche di Ottana e di Fiume Santo strutturate per fornire il carico di base a tutto il sistema industriale sardo. A sopperire al carico di punta ci avrebbe pensato l’idroelettrico. Ma i bacini idrici artificiali non erano ben bilanciati tra l’esigenza di fornire sempre più energia elettrica al sistema e la necessità di garantire un utilizzo irriguo e di potabilizzazione delle acque sia alle campagne, sia alla popolazione che, nel periodo estivo e grazie alla nascente industria turistica, triplicava il consumo idrico. Il compromesso non poteva esistere in quanto la coperta era decisamente troppo corta. Occorreva il gas per alimentare i turbo alternatori, gli unici a poter competere con le turbine idrauliche per tempi di avviamento. Peccato che in Sardegna di gas non ce ne sia mai stato. Pertanto le centrali termoelettriche vennero dimensionate sia per fornire il carico base che a fronteggiare i picchi dei consumi. Ciò al fine di limitare l’utilizzo di energia idroelettrica nelle ore di punta e nel periodo estivo, quando, con i bacini semivuoti, la poca acqua rimasta era destinata a dissetare le campagne e le citta.
Un tale utilizzo delle centrali termoelettriche non poteva certo rimanere a costo zero (le centrali termoelettriche hanno il loro massimo rendimento a regimi di potenza erogata ben definiti): la bolletta sarda cominciò a salire nei confronti delle analoghe bollette “Continentali”. Per scaricare in parte la l’eccedenza di produzione elettrica, ed avere meno insularità, venne messo in cantiere e realizzato il collegamento sottomarino “SA.CO.I”, acronimo di SArdegna-COrsica-Italia. Inaugurato ed entrato in servizio nel 1972, per più di quarant’anni sarà l’unico cordone ombelicale che lega il sistema elettrico sardo al resto del mondo, con un piccolo, tanto per cambiare, handicap: può trasportare solo 300 MW, di cui 50 MW stabilmente assorbiti dalla Corsica, insufficienti a dare stabilità al sistema elettrico e sopperire a qualsiasi problema che potesse mandare in blocco le centrali. E infatti gli anni settanta furono caratterizzati da numerosi block-out che alliettavano i sardi nelle calde notti estive e nelle grigie giornate invernali, tant’è che ogni qualvolta il mitico Bernacca prospettava in TV la possibilità di piogge sulle isole, in Sardegna si scatenava la corsa per accaparrarsi candele, senza contare i danni causati all’interruzione dell’attività industriale, anche per soli pochi minuti.
Oggi, grazie ai massicci interventi atti a migliorare il servizio da parte dell’Enel, la situazione è assai migliorata ed il servizio elettrico ha gli stessi livelli qualitativi del resto d’Europa. Purtroppo rimane il problema del costo dell’energia elettrica che tutte le fonti economiche affermano essere il 30% superiore a quello dell’Italia peninsulare. Tali fonti tuttavia, essendo troppo complicata la selva di norme e codici che governano la materia, non entrano troppo merito del perché sia così cara.
Tuttavia, in realtà, lo si può intuire da alcuni indizi. Uno di questi è l’insularità e la parzialità dei collegamenti elettrici con la rete europea (in parte risolti con la messa in servizio del SA.PE.I), uniti alla scarsa capacità che il sistema di generazione (troppo sbilanciato sul termoelettrico tradizionale e con due soli gruppi turbogas presenti nella centrale E.On di Fiumesanto) presenta nel seguire la curva di carico giornaliera.
Per dare un’idea, assai semplicistica, di quale sia la situazione, basti pensare che in Sardegna nel 2012 sono stati consumati 10.552,2 GWh.
Le centrali termoelettriche tradizionali (32 impianti con una potenza installata pari a 2.643,9 MW) hanno prodotto 11.345,6 GWh, a cui si aggiungono: 385,4 GWh prodotti dall’idroelettrico, 1.523,4 GWh prodotti dall’eolico e ben 653,9 GWh prodotti dal fotovoltaico, per un totale complessivo di 13.914,00 GWh, di cui 12.780,50 GWh di produzione netta destinata al consumo (Fonte Terna dati statistici Regioni 2012).
Ora, i 2.643,9 MW di potenza elettrica installata presso le termoelettriche possono, in linea teorica, produrre 23.160,56 GWh in un anno di 8760 ore, pertanto le stesse sono utilizzate per circa il 49% della loro capacita teorica (11.345,6*100/23.160,56= 48,986%) a fronte di un utilizzo medio pari al 70% delle centrali continentali” (comprensive dei fuori linea per manutenzione): questo dato già dovrebbe far riflettere.
Come se non bastasse, nel 1999 la Comunità Europea firmava, in pompa magna, il trattato di Kyoto, con il nobile intento di limitare il surriscaldamento del pianeta dovuto, pare, alle eccessive immissioni in atmosfera della CO2 da parte dell’uomo. La politica sarda è da subito in prima linea per promuovere la nuova Green Economy e numerose sono le iniziative entusiastiche atte a rendere verde ed ecosostenibile la vita in Sardegna, diventata da subito il Faro dell’Umanità. Si parte da subito con la proposta di realizzare centrali elettriche basate sulla innovativa tecnologia del Solare Termodinamico, ben sponsorizzate da illustri fisici e da valenti politici.
Si continua poi con i ben più remunerativi parchi eolici: sviluppatori si aggirano per i Comuni Sardi stimolando le varie amministrazioni con congrui canoni annuali per ottenere le necessarie concessioni e autorizzazioni, a tutti i livelli, per piantare torri su tutti i crinali possibili. Nascono intere foreste, o meglio, “Parchi”, in sfregio al Paesaggio che gli uffici regionali sono chiamati alla tutela.
Arrivano poi i Parchi Fotovoltaici e, anche, le prime leggi di limitazione del boom che stava minacciando di alterare in modo irreversibile il paesaggio rurale della Sardegna. Ma la spinta ecologista era troppo potente, il fotovoltaico era presentato come l’unica forma di produzione di energia democratica e popolare, attraverso la quale i piccoli proprietari potevano far quadrare i conti familiari sempre più in rosso, in quanto la crisi generale stava cominciando a fare sentire i suoi effetti. Difatti i poli petrolchimici, con l’unica eccezione di Sarroch, già a seguito della grande crisi petrolifera del 1973 avevano cominciato un lento ed inesorabile declino, mitigato da provvedimenti tampone dei vari governi che negli anni si sono succeduti.
Sempre più famiglie passavano dall’occupazione alla cassa integrazione e quindi direttamente alla disoccupazione, e neanche il tanto decantato comparto turistico riusciva ad assorbire almeno quella che era definita disoccupazione giovanile.
La Green Economy rappresentava, a parere di tutta la classe politica isolana, senza nessuna eccezione, come lo strumento che doveva risollevare l’economia sarda, permettendo l’abbattimento delle tariffe elettriche. Solo che queste, non solo non diminuivano, ma aumentavanoin modo impressionante grazie alla componente A3, introdotta per sovvenzionare gli incentivi, passata dai 15,75 €/MWh del 2010 ai 57,86 €/MWh del terzo trimestre del 2013. Un curioso effetto del Decreto ” Salva Alcoa”, che non ha salvato Alcoa ma in compenso ha accoppato la piccola e media industria Sarda ( e non solo) e messo al tappetto la maggior parte delle imprese artigiane.
Occorreva assolutamente una nuova politica energetica. Il nucleare, l’unica fonte in grado di garantire economie di scala poteva essere una soluzione. Il primo timido tentativo di reintrodurre il nucleare in Italia su fatto dal governo Prodi, vincitore, si fa per dire, delle elezioni nel 2006. Purtroppo tale tentativo naufragò subito per la presenza ingombrante dei verdi. Ci riprovò il Governo di Berlusconi nel 2008. L’opposizione fu subito alta e assai popolare, e la Sardegna fu protagonista.
I movimenti indipendentisti sardi si fecero promotori di un referendum consultivo contro la possibilità che la Sardegna diventi “Terra Radioattiva” e subito tutta la classe politica isolana si accodò alla richiesta. Nelle giornate del 15 e 16 maggio 2011, il 59,34 per cento degli aventi diritto al voto (877mila 982 su 1 milione 479 mila) con punte del 65,91 nel Sulcis Iglesiente, si presentò ai seggi per dire al governo che di nucleare proprio non ne vuole sapere. La Sardegna era diventata il “Faro dell’Umanità”.
Dopo qualche mese anche il referendum nazionale, stavolta abrogativo, affondò del tutto il nucleare in Italia.
Alla Sardegna restava ancora la possibilità di usufruire del gas Algerino, che con la realizzazione del GALSI poteva risollevare un poco la crisi energetica e quella elettrica in particolare. Ma i sardi non vogliono che la loro amata terra sia “sventrata” dagli scavi per interrare il gasdotto. Inoltre, il gasdotto avrebbe potuto mettere a repentaglio, dalle parti di Olbia, l’habitat delle uniche 13,17 galline prataiole presenti in Sardegna. E anche il Galsi fu affossato!
In compenso, crescono le richieste di autorizzazioni per poter realizzare centrali elettriche a Bio-Massa ( che se autorizzate consumerebbero tutta, ma proprio tutta la bio-massa presente in sardegna in meno di due mesi!) e mega centrali a Solare Termodinamico.
Si può quindi ben affermare che l’industrializzazione della Sardegna, partita dalla disponibilità del “carbone bianco” delle centrali idroelettriche degli anni venti, stia morendo pur di tenere in vita la Green Economy.
La soluzione ottimale per rilanciare il comparto industriale Sardo sarebbe quello di ritrovare il carbone bianco, quell’energia a basso costo, che un tempo gli avevano dato quel grande slancio.
Ma non avendo più spazio per nuovi impianti idroelettrici, la vera alternativa sarebbe stata il Nucleare: immense quantità di energia, sicurezza del servizio (e non solo quando tira vento e brilla il sole), il tutto concentrato in meno di 1 km2.
Ma tale idea è stata affossata per fare spazio alle energie da sole e vento, che sono ben lontane dall’essere il “carbone bianco”.
Alcoa, anche per questo, ma non solo, ha chiuso, insieme a tante attività industriali. E, purtroppo, siamo solo all’inizio !