A margine delle olimpiadi, dopo due anni di colloqui da remoto a causa del covid, Xi Jinping e Vladimir Putin si sono incontrati. La visita era attesa soprattutto per conoscere il comunicato finale e quindi poter iniziare ad avere una visione globale degli eventi.
Entrambi i leader condividono un passato ideologico con tutte le sfumature del caso. Entrambi mirano a una cosa sola: consolidare la posizione del proprio paese e in qualche modo pareggiare i conti con la storia. Il russo ha assistito impotente agli eventi della fine degli anni 80 e il collasso degli anni 90. L’Unione Sovietica come erede storico della Russia imperiale per estensione territoriale, cedeva il passo alla Federazione Russa, ridimensionata, sempre transcontinentale ma in preda a un crollo economico, sociale e morale verticale. Negli anni 90, la Federazione Russa era diventata un paese con un governo debole, quasi liquido, guidato nei fatti da un’oligarchia energetica e un complesso militare-industriale in declino. Nel ’99, nessuno avrebbe scommesso sull’uomo che avrebbe rifondato la Russia. Perché è di questo che si tratta.
Una delle prime mosse, l’8 dicembre 2000 con il nuovo inno che riprendeva la musica dell’inno sovietico. Quella che sembrava una stravaganza, si rivelò invece una scelta vincente. Generazioni intere erano cresciute con quella musica che rievocava anche le grandi epopee come la conquista dello spazio. Musica vecchia, parole nuove, perché la Russia è anche terra di contrasti. Con la ripresa economica, il ripristino dell’equilibrio tra i due grandi attori economici, quello energetico e quello militare-industriale e in un certo senso, la rinascita culturale e morale, la Russia assume una nuova dimensione forse ancora poco compresa. Non è solo un paese transcontinentale di 17 milioni di chilometri quadrati, un centinaio di popoli oltre a quello russo vivono nei suoi confini. Nel centro del potere, l’esclusiva etnica non è solo russa, ma anche tatara, tuvana e persino ucraina. Perché per il presidente russo, la Russia non è solo un paese ma un’idea. Ha fuso elementi zaristi e sovietici, che potremmo identificare come una nuova ideologia, il “Russismo”, la cui massima espressione è la nuova cattedrale delle forze armate della periferia di Mosca.
Il suo interlocutore invece, il presidente Xi, ha attraversato tutte le fasi di crescita e sviluppo del suo paese. Figlio di un militante comunista della prima ora, ideologo e organizzatore della guerriglia contro le forze nazionaliste di Chang Kai-shek, poi organizzatore della produzione bellica durante la guerra sino-giapponese. Suo padre è anche conosciuto per le ripetute battute d’arresto della sua carriera, imprigionato, condannato a morte e graziato da Mao, da vittima della Rivoluzione Culturale ed esiliato ad artefice della riforma economica nel sud durante l’era Deng. Xi ha un’importante eredità familiare, ma, a differenza di suo padre, ha avuto una crescita lineare, salendo gradino per gradino verso la carica suprema di Segretario Generale.
È nato in un paese uscito da poco dalla guerra civile e poverissimo. Ma con anche il ricordo storico della Cina considerata come la mucca da mungere dalle potenze occidentali dell’800 e primi ‘900, così come il ricordo del colonialismo giapponese. Xi ha vissuto la pausa capitalistica come una parentesi per diffondere un certo livello di benessere medio, ma è l’artefice e l’ideologo del “socialismo con caratteristiche cinesi”.
Questa lunga premessa è doverosa per capire, chi sono e quali sono le motivazioni di entrambi.
Questi ultimi mesi, siamo entrati in una fase nuova. Potremmo farla risalire al 2008, quando gli Stati Uniti hanno deciso che la Georgia e l’Ucraina avrebbero fatto parte della NATO. La Georgia, dopo la Rivoluzione delle rose e la conseguente destituzione del presidente Shevardnadze (nonché ex ministro degli esteri dell’URSS fino al 90), intraprende una politica filo occidentale, ma dalla sua indipendenza, affronta diversi conflitti interetnici, in Abcasia e in Ossezia del Sud per sfociare nella Guerra di agosto e la cristallizzazione della repubblica caucasica, bloccandone di fatto, l’ingresso nella NATO. Questo è stato il vero punto di svolta della politica russa riguardo al suo vicino estero. Questa crisi è stata sottovalutata e poco compresa, se non nelle sue conseguenze immediate. Portava con sé il significato che la Russia aveva ripreso a pensare in termini strategici ed era uscita dal complesso dello sconfitto.
Percorso simile in Ucraina, tra governi instabili, rivoluzione arancione, nuovo corso filorusso e infine l’Euromaidan, il paese ingaggia una via filooccidentale. I problemi dell’Ucraina rispetto alla Georgia, oltre a quelli economici, sono territoriali e linguistici prima che etnici. La Crimea fino al 54 faceva parte della Russia sovietica, ma data da Krusciov per celebrare i 300 anni del trattato di Pereslav. Con il cambio di potere a Kiev, la Russia avverte un rischio strategico e teme di perdere l’accesso a Sebastopoli. Nel Donbass, la situazione è a sua volta diversa. La cattiva gestione del potere ucraino ha causato un crollo verticale della produzione e della ricchezza di questa regione, una volta il cuore pulsante dell’Unione Sovietica. La popolazione, più vicina alla Russia di quanto lo fosse per Kiev, si solleva e di fatto nascono due repubbliche filorusse, non controllate dallo stato ucraino. Questa nuova situazione blocca il percorso verso l’integrazione con la NATO.
Ma sarebbe ingenuo pensare che quello che non è stato possibile per la Georgia, lo sia per l’Ucraina. Se Mosca in passato ha accettato, seppur malvolentieri, l’integrazione dei paesi baltici, Georgia e Ucraina sono considerate vitali per la sicurezza stessa della Federazione Russa. Avere la via del Caucaso bloccata è un problema, avere la NATO a 400 chilometri da Mosca, una sconfitta per KO. Per questo motivo, a prescindere da chi abbia torto o ragione, questo territorio non sarà abbandonato da Mosca e, per provarlo, mostra i muscoli, sposta armamenti in esercitazioni imponenti, mostra una capacità di gestione logistica efficiente, fa uscire anche in mare aperto la sua marina, importante, ma nulla di paragonabile con quella statunitense. L’altro aspetto è quanto è pronto a rischiare l’occidente per l’Ucraina? L’occidente fornisce armi, sistemi e droni, ma in caso di conflitto, chi, come e quando si interviene? Cosa siamo pronti a rischiare in caso di confronto con la Russia, che, ricordiamolo, ha un ingente potenziale nucleare? Sono domande che rimangono aperte, e detto francamente, speriamo lo restino.
Sul fronte pacifico, la Cina popolare invece ha un problema di contenzioso non solo territoriale, ma di rappresentazione. Perché in realtà, ci sarebbero due Cine. La Cina di Pechino, quella di Xi e quella di Taipei, più conosciuta come Taiwan/Repubblica di Cina. Se Pechino è attualmente impegnata a mostrare il suo volto migliore con le olimpiadi, sta affrontando cinque crisi che minano la “volontà di armonia” di Xi. Quella più recente, la gestione della pandemia, la crisi uigura, l’occupazione del Tibet e la digestione di Hong Kong. Ma Xi non pensa solo alla Cina di oggi. Pensa alla Cina 2049, quando il paese sarà unito nel socialismo con caratteristiche cinesi. È ovvio che in questo quadro, Taiwan non ha un posto, se non quello di tornare a essere una provincia integrata alla Cina continentale.
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Ma la questione Taiwan porta con sé anche un aspetto strategico che entra in rotta di collisione con gli interessi strategici americani. L’isola fa parte del cordone difensivo/offensivo (a seconda di chi lo guarda) che parte dal nord del Giappone per proseguire per le Ryūkyū giapponesi, Taiwan e le Filippine. Questa barriera costituisce un limite invalicabile per la flotta della Cina di Pechino, che le impedisce di essere una potenza del pacifico a tutti gli effetti.
Durante l’incontro odierno tra Putin e Xi, la Russia “riafferma la sua adesione al principio “Una Cina”, conferma che Taiwan è parte integrante della Cina e si oppone in qualsiasi forma all’indipendenza di Taiwan”. Da parte sua la Cina di Pechino “tratta con comprensione e sostiene le proposte avanzate dalla Federazione Russa sulla formazione di garanzie di sicurezza giuridicamente vincolanti a lungo termine in Europa.” Ma c’è anche di più, nel comunicato congiunto: viene sottolineato che “l’amicizia tra i due Stati non ha confini, non ci sono zone vietate nella cooperazione, il rafforzamento della cooperazione strategica bilaterale”. Questa è la conclusione di un alleanza ad ampio spettro, economico e strategico.
Come conclusione, se forse avessimo considerato come occidente di trattare la Russia, se non alla pari, almeno come partner strategico di primo ordine, oggi non avremmo una Russia alleata alla Cina popolare.
Il punto cruciale è: quali sacrifici possono sopportare l’economia e i popoli europei e occidentali in caso di crisi maggiore o di conflitto in Ucraina? Ai cinesi, basta fermare i porti, ai russi, chiudere i rubinetti. Chi cede per prima? Chi ha le cose e non le vende o chi ne ha bisogno e non le può comprare?