L’ordine internazionale bipolare che susseguì al termine della Seconda Guerra Mondiale, celermente sfociato nella formazione di due blocchi politico militare contrapposti funzionali ad ideologie antinomiche, permisero all’Italia di sviluppare -pur fissando l’architrave multilaterale dell’Atlantismo e dell’Europeismo quale linea guida- una politica estera dalla peculiare assertività nel campo della mediazione tra i due schieramenti, con il movimento dei Paesi non allineati -Jugoslavia, per contingenze storiche e ragioni economico-politico-culturali su tutti- e con il Medio Oriente; grazie all’attività diplomatica ed un certo fermento nell’elaborazione della politica estera portata avanti da statisti di un certo spessore culturale e lungimiranza -Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Gianni de Michelis ecc.- l’Italia riuscì a mostrarsi come la più concilianti delle potenze occidentali, aperta al dialogo ed al superamento della contrapposizione ideologica, a guadagnarsi un certo riguardo nel concerto dei Paesi appartenenti al “Mondo Libero” e capace di ritagliarsi un ruolo peculiare nell’ordine internazionale. Ingenti difficoltà interne, ambiguità, mezze misure ed oscillamenti non mancarono; utilizzando le autorevoli parole dell’Ambasciatore Sergio Romano, quanto implementato dall’Italia fu “un esercizio autosufficiente, a destinato non tanto a promuovere la pace quanto a singolarizzare la sua posizione in Europa e a consentirle di cogliere qualche limitato beneficio di facciata”. Che effettivamente si verificarono, perché l’Italia, c’era. Gli eventi che sconvolsero l’ordine globale nel biennio ’89-’91, dalla caduta del muro di Berlino (ed alla riunificazione della Germania sulla base del principio di nazionalità che fecero riemergere un potente stato competitor a lungo depotenziato dalla divisione in due Entità distinte) al crollo del comunismo nei regimi dell’Europa centro orientale, fin alla dissoluzione della stessa Unione Sovietica, colsero di sorpresa l’Italia. La legittimazione consolidatasi con il bipolarismo della Guerra Fredda venne meno e per la classe dirigente italiana rappresentò un’ardua sfida ridefinire le linee strategiche guida ed i vincoli per un piano d’azione organico della politica internazionale dello Stato -enigma che tutt’oggi appare irrisolto. I primi anni post-guerra fredda, però, rappresentarono un lasso temporale colmo di straordinarie opportunità per Roma; tante quante ne offre al nostro Paese il 2017, anno chiave per la politica estera italiana. Ingresso nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (che lasceremo nel 2018 all’Olanda, per via del pregresso accordo che ha portato al seggio condiviso), sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma e presidenza italiana del G7 che culminerà con il vertice di Taormina. Essere in questi consessi, e dirigerli, comporta grandi responsabilità nella definizione e nella realizzazione dell’agenda; è pur vero, però, che oltre a portare agli onor di cronaca determinati argomenti, servono credibilità, volontà politica e alleati volenterosi di appoggiare i piani italiani. Il mutamento dell’ordine planetario, la dinamicità con cui taluni eventi si sono verificati e l’instabilità del contesto geopolitico, offrono all’Italia la possibilità di farsi valere in ambito internazionale e perseguire i propri interessi nazionali. Il Mediterraneo ed il ruolo dell’Italia in esso, la nuova amministrazione statunitense ed i rapporti con la Russia di Putin, il problema della costante migrazione saranno solo alcune delle sfide che l’esecutivo Gentiloni si troverà ad affrontare. Ma sarà la questione libica a focalizzare l’attenzione della nostra diplomazia, o almeno così dovrebbe essere. La vittoria nella battaglia di Sirte da parte delle milizie misuratine contro lo stato islamico e la cacciata di esso dalle coste mediterranee, non equivale alla neutralizzazione definitiva del gruppo nella regione: seppur in irreversibile crisi politica e militarmente sulla difensiva in tutto il Medio Oriente, nuovi centri di comando e logistici potrebbero essere allestiti nel sud del paese, Fezzan e zone contigue alla Tunisia; oltre a minacciare la stabilità dei paesi limitrofi per il rientro di foreign fighter nei paesi d’origine (tra cui proprio la Tunisia), la tattica usuale prevede che i jihadisti intensifichino i proprio attentati terroristici -non è un caso che proprio tunisino sia l’attentatore che ha commesso la strage dei mercatini di Natale a Berlino. Nonostante la vittoria contro le forze del califfato possa rappresentare un forte catalizzatore di consenso internazionale per il flebile l’esecutivo di Serraj, era prevedibile che la sconfitta del comune nemico fondamentalista avrebbe acuito le tensione tra i due principali gruppi che si contendono il Paese, facendo presagire lo scoppio di una nuova guerra civile libica. Si è parlato di recenti bombardamenti ad opera della circoscritta aviazione militare dell’Esercito Nazionale Libico del Maresciallo Haftar -composta per lo più da vecchi velivoli acquistati dall’Unione Sovietica- contro talune basi delle forze di Misurata che hanno dichiaratamente appoggiato il governo ONU di Tripoli. Proprio Khalifa Haftar, in questo contesto geopolitico destabilizzato, diviene ogni giorno che passa inarrestabilmente più potente; il Maresciallo, che controlla interamente la Cirenaica (oriente del paese), ha le carte in tavola per divenire l’ago della bilancia del futuro ordine politico militare libico. Sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti -indirettamente anche da Francia e Gran Bretagna nonostante di facciata appoggino gli sforzi diplomatici dell’Italia e l’esecutivo ONU-, Haftar che ha visto crescere il proprio esercito ed è incentivato a raggiungere una posizione di forza dalla quale negoziare, può contare sul supporto di Mosca. L’interesse del Cremlino per la Libia cresce esponenzialmente: consulenze, sostegno più o meno diretto, invio di consiglieri e tecnici militari, ammodernamento del dispositivo bellico e vendita di armi. Gli strumenti che Putin può utilizzare, sostenendo l’ex ufficiale fidato di Gheddafi, sono plurimi e tutti funzionali per incrementare l’influenza russa nel Mediterraneo centrale, nel Nord Africa più in generale ed ottenere l’utilizzo di piste aeree e basi navali come quella di Sidi Barrani. Non solo: l’uscita di scena di Obama (e di Renzi), principali sponsor della soluzione Nazioni Unite e per l’implementazione del Consiglio presidenziale di Al-Serraj e l’ormai imminente insediamento dell’amministrazione Trump complicano le cose. Se è pur vero che poco si sa circa le linee guida della politica estera del Tycoon, la stipulazione di un accordo sistemico con la Russia potrebbe ulteriormente ampliare il margine di manovra di Mosca e favorire il sistema di alleanze nella regione (Egitto di Al-sisi in primis). E’ in questa delicata fase transitoria ed alla luce di un anno fondamentale come il 2017 per l’Italia che occorre effettuare oculate riflessioni: si è puntato sul cavallo sbagliato sin dall’inizio? Quale margine, ed eventualmente quali modalità, per cambiare prospettiva? Era davvero immaginabile una Libia in cui si sarebbe potuto escludere un leader dall’autorità come Haftar? L’Europa è totalmente assente, e le potenze del Vecchio Continente divise sul da farsi. Ebbene, nel perseguimento dell’interesse nazionale italiano in Libia, aver appoggiato politicamente e diplomaticamente un leader deficitario di carisma, notorietà ed autorità -se paragonato ad Haftar- quale Serraj, asserragliato a Tripoli ed alla guida di un esecutivo inefficace e con scarsa capacità di governo sulla mera capitale, può rappresentare un errore irrimediabile; Gentiloni, che pur si è speso tanto per Serraj, ora potrebbe essere costretto a reiterare il supporto al Consiglio Presidenziale per salvare la faccia. La missione di medical diplomacy portata avanti con l’operazione Ippocrate, a sostegno delle milizie di Misurata, deve esser letto come sostegno concreto e segnale politico forte a supporto di quelle forze armate che sostengono Al Serraj. Ma la presenza dei nostri militari, apparentemente non pianificata nel migliore dei modi come abbiamo già scritto sul nostro sito, inizia a suscitare malcontento e può costituire un veicolo di ostilità contro le forze armate italiane e più in generale contro l’Italia intera. Forse, è arrivato il momento, di sostenere non solo unilateralmente una parte del conflitto ma di fornire supporto anche ad Haftar soprattutto in relazione ai suoi ripetuti successi militari e per non essere esclusi -tagliati fuori- dai tavoli negoziali al termine del conflitto. Fermare l’escalation, giungere ad un accordo economico, chiarificare ruoli e posizioni dovrebbe essere prioritario per Roma, così come può esser vantaggioso recuperare un ruolo di mediatori tra le parti in contrapposizione per arrivare a pacificare una Libia stabile, forte, immune agli estremismi ed alleata all’Occidente.