Combattere lo stato islamico dovrebbe essere, almeno in teoria, una delle priorità degli Stati Uniti a guida Obama, ma per avere successo in questa lotta serve all’America un forte alleato nella regione, un alleato che possa aver non solo un peso militare, ma anche politico e culturale.
Secondo il nostro gruppo gli Stati Uniti avevano due opzioni alternative da scegliere, due opzioni che non possono coesistere in quanto rappresentano due via opposte alla “democrazia” nei paesi islamici che gravitano intorno al mediterraneo e al Medio Oriente.
Questi due paesi sono, anzi erano, la Turchia e l’Egitto.
La Turchia e l’Egitto sono i paesi che insieme a Iran, Arabia Saudita e Qatar, hanno la capacità di influenzare gli eventi nella regione. Iran, Arabia Saudita e Qatar non possono essere partner privilegiati per la soluzione della crisi in quanto sia in Siria che in Iran essi combattono una guerra per procura fornendo appoggio e sostegno economico e militare alle milizie sciite e sunnite, che rendono palese e concreta la rivalità tra le due maggiori correnti della fede islamica in medio oriente.
Rimangono quindi i due stati “laici” con i quali tentare di organizzare una risposta alla avanzata degli islamisti.
Egitto e Turchia posseggono però oggi caratteristiche molto differenti tra loro. L’Egitto è una repubblica che ha subito negli ultimi tre anni due colpi di stato. Il primo che ha rovesciato il regime di Mubarak e portato al potere, dopo elezioni discutibili, la Fratellanza Mussulmana, una formazione fortemente nazionalista e con caratteristiche teocratiche, per la quale le priorità di governo erano la scrittura di una costituzione aderente in maniera stretta alla legge coranica, il supporto economico e militare alle formazioni palestinesi che rifiutano la presenza di Israele, la denuncia dei trattati di Camp David riguardanti lo status delle relazioni tra Egitto ed Israele dopo la sconfitta Egiziana nel Sinai, il supporto ai ribelli siriani e la partecipazione egiziana a raid aerei contro le forze di Al Assad. I progetti dei Fratelli Mussulamni sono stati interrotti da un colpo di stato militare guidato dal Generale El Sisi, Colpo di Stato messo in atto proprio mentre il Presidente Morsi iniziava concretamente a parlare di raid aerei egiziani contro la Siria di Al Assad.
Ora invece l’Egitto sostiene la necessità di un accordo politico in Siria e vede la minaccia islamista di gran lunga peggiore di quanto possa essere, per il mediterraneo e lo stesso Egitto, la permanenza al potere di Al Assad. Questo atteggiamento egiziano va interpretato anche alla luce della condizione della Libia, paese in preda al caos istituzionale, economico e militare e che potrebbe diventare un oasi per gli islamisti interessati a destabilizzare lo stesso Egitto.
L’Egitto, l’Egitto dei militari fedeli ad El Sisi, vede allo stesso tempo la Turchia come una minaccia alla propria sicurezza, in quanto Ankara incarna il modello di evoluzione della Nazione desiderata dalla Fratellanza Mussulmana, una nazione che abbandona passo dopo passo la laicità per impostare un modello basato sull’appartenenza religiosa e sull’avvicinamento del potere temporale e spirituale.
L’Egitto vede quindi la Siria come un paese dove verrà determinato l’assetto di una intera regione, un paese che sarà forse il luogo dove si determinerà l’evoluzione della società e della cultura islamica mediorientale nei prossimi venti anni.
Anche la Turchia possiede la medesima visione della Siria. Anche per Ankara la Siria, e il suo assetto dopo la guerra, determinerà chi emergerà come potenza catalizzatrice della regione islamica mediterranea, mediorientale e per quanto riguarda la Turchia anche Caucasica.
La Turchia vede in una parte della Siria una sua estensione culturale, se non territoriale; parliamo dell’area nord del paese quella compresa tra la provincia di Aleppo e il confine turco, l’area che comprende anche la città di Kobane e della piccola enclave turca presso Qal’at Ja’bar dove si trova sepolto Suleyman Shah, progenitore della dinastia ottomana, enclave ancor oggi presidiata da una compagnia di soldati turchi. In parte la Siria, la Siria di AL Assad è vista dai turchi come un bastione dello stato laico dove la legge coranica non prevale sul diritto civile e il potere politico non è legato in alcun modo al potere religioso.
Le leggi emanate in questi anni dai governi di Erdogan, ora diventato Presidente della repubblica turca, evidenziano la deriva islamica della nazione, leggi che permettono l’ostentazione di simboli religiosi nei luoghi di studio e di lavoro, leggi per la creazione di nuove moschee nel paese, leggi per il controllo delle comunicazioni e dei social network e purghe nelle forze armate ritenute un pericolo per il potere del presidente Erdogan per la presenza ai vertici di un numero inaccettabile, per il presidente, di laici. La Turchia di Erdogan teme da sempre un colpo di stato delle forze armate e anche per questo vede l’Egitto come un nemico, forse più pericoloso agli occhi del governo turco dello stesso Califfato Islamico, in quanto l’esercito ha estromesso il partito islamico locale.
La Turchia inoltre è scesa a patti con gli Islamisti del Califfato al fine di ottenere la liberazione di decine di ostaggi turchi catturati dallo Stato Islamico durante la caduta di Mosul. Patti non noti a chi vi scrive, ma che mettono in evidenza la postura turca verso il califfato.
Dinnanzi a questo quadro, esposto in estrema sintesi in questo post, gli Stati Uniti hanno scelto come alleato preferenziale per la loro campagna in Siria la Turchia. Certo le motivazioni logistiche hanno avuto la loro importanza, tuttavia a nostro avviso l’elemento cruciale che ha fatto decidere Washington a scegliere Ankara è stato il fatto che Erdogan vuole la caduta di Al Assad mentre El Sisi vorrebbe il presidente siriano ancora al potere.
Alla base delle scelta americana è stata importante, sempre a nostro avviso, la convinzione di essere in grado di poter gestire lo Stato Islamico dopo la caduta di Al Assad, sottovalutando il fatto che una volta caduto Al Assad, califfato e Turchia potrebbero instaurare relazioni di reciproca collaborazione in campo energetico ed economico, relazioni basate anche sulla comune impronta islamica.
Abbiamo coscienza della forza della nostra ultima osservazione ma vogliamo citarvi, in chiusura, la risposta che diede un ex capo di stato maggiore turco (il generale Buyukanit) nel 2010. Egli riferendosi alle azioni del governo turco di Erdogan, descritto spesso come “moderato”, disse:: “non esiste l’islam moderato, esiste l’islam la quale è una religione, che come tutte le altre, deve rimanere ancorata nella coscienza dei singoli. Se emerge pubblicamente confligge con il destino laico della Turchia”.1
Una frase che va ricordata osservando l’atteggiamento turco verso il Califfato e tenuta a mente per cercare di intuire le future mosse di un paese ricco ed in crescita, con un esercito numeroso e ben equipaggiato, un paese che sta abbandonando la laicità per tuffarsi nel vortice dello stato basato sulla religione, un paese di nome Turchia e che oggi è lo stato sul quale il presidente Obama ha scommesso per sconfiggere gli islamisti. Il presidente americano avrà commesso un altro errore sullo scacchiere geopolitico? Agli eventi futuri il compito di rispondere.
1 Citazione del Gen Buyukanit http://www.ispionline.it/it/documents/Commentary_Marsili_14.02.2011.pdf