Alla vigilia dell’insediamento di Donald J. Trump vi proponiamo questo interessante post di Enrico Barranu sui rapporti Sino-Americani
Tra le poche cose chiare che possiamo già intravedere nella linea di politica estera della futura amministrazione Trump vi è una rinnovata assertività nei confronti della Cina, mai come adesso percepita come il futuro avversario del potere americano nell’Asia dell’est.
Il Tycoon non ha mai disdegnato neanche durante le sue campagne elettorali attacchi duri soprattutto contro il carattere diseguale del rapporto commerciale tra le due potenze che, a detta sua, favorisce nettamente il gigante asiatico. Tuttavia, in poco più di un mese dalla sua elezione, Trump ha alzato il tiro, aggiungendo a questo tipo di attacchi uno che tocca più nel profondo gli interessi e, se vogliamo, la sensibilità sia della leadership che del popolo cinese: la questione di Taiwan.
Il primo “scandalo” risale al 3 dicembre 2016, quando con un tweet annunciò che la presidente taiwanese, Tsai Ing-Wen, lo aveva chiamato per congratularsi della recente vittoria alle presidenziali. Il secondo, più recente e più grave, riguarda l’unica Cina: Trump ha dichiarato e in seguito confermato pochi giorni fa al Wall Street Journal che tale principio potrebbe essere in discussione e rimesso sul tavolo delle negoziazioni. Il governo cinese ha ovviamente risposto a tono a questa provocazione, ribadendo il carattere non negoziabile di questo principio e minacciando gravi contromisure.
In questa sede non v’è bisogno di ricordare nel dettaglio quanto la questione irrisolta di Taiwan sia ancora una ferita aperta per Pechino. Basti considerare come la determinazione nel considerare l’isola parte integrante del territorio cinese è tale che, a distanza di ormai settant’anni dalla definitiva divisione, Taiwan continua a essere percepita e trattata come una questione di politica interna dalla leadership cinese.
Tuttavia, prima di immaginare l’immediato futuro del vaso di Pandora che Trump sta agitando in questi mesi, bisogna soffermarsi sul significato stesso del principio dell’unica Cina, sul contesto storico in cui nacque e perché è così importante per le relazioni Sino-Americane.
Occorre innanzitutto fare una distinzione importante fra principio e politica dell’unica Cina, due concetti collegati ma differenti, che in periodi diversi sancirono la riapertura e il consolidamento dei rapporti fra Cina e Stati Uniti.
Il principio dell’unica Cina è il principio che afferma l’esistenza di una sola indivisibile Cina, intesa come civiltà di cui fanno parte sia il territorio della Repubblica Popolare Cinese che quello di Taiwan. Esso fu alla base dello storico riavvicinamento fra Stati Uniti e Cina nel 1972. Fu Kissinger, come sappiamo, a suggerire la “carta cinese” a Nixon come mossa anti-sovietica per spaccare definitivamente il campo socialista e acquisire influenza nella regione. Tuttavia, senza il riconoscimento da parte degli americani dell’esistenza dell’unica Cina, Mao non si sarebbe mai spinto oltre: la questione taiwanese era al centro dell’agenda di politica estera cinese e un segnale positivo da Washington sulla questione era indispensabile anche solo per iniziare un dialogo. Nixon riconobbe infine il principio dell’unica Cina e iniziò il processo che portò gli Stati Uniti a normalizzare i rapporti con Pechino e a distanziarsi da Taiwan.
La politica dell’unica Cina, invece, fa riferimento alla linea di politica estera che riconosce una sola entità statale come espressione della Cina, dunque o la Repubblica Popolare Cinese o Taiwan. Il riconoscimento di uno dei due stati comporta automaticamente la chiusura totale dei rapporti con l’altro.
Questa linea politica esclusiva dovette attendere altri sette anni per vedere la luce nel contesto delle relazioni tra le due potenze. Quel processo di normalizzazione cominciato da Nixon fu portato a compimento da Jimmy Carter nel 1979 con il riconoscimento diplomatico della RPC. Ancora una volta l’avanzamento delle relazioni Sino-Americane passò per la questione di Taiwan.
Gli Stati Uniti mantennero rapporti commerciali e politici informali con la repubblica di Taiwan, assicurandone la difesa pur non avendo un trattato di alleanza esplicito come con Corea del Sud o Giappone. Nel 1992 le “due Cine” arrivarono addirittura a un riconoscimento condiviso del principio dell’unica Cina. Questo fu rimesso in discussione nel 1995 dal governo di Taiwan, provocando l’ira della Cina che rispose lanciando missili nelle acque territoriali dell’isola in due occasioni, nel 1995 e nel 1996. Furono gli Stati Uniti, ripetendo ciò che era successo nel 1954 e nel 1958, a dispiegare un massiccio contingente navale a difesa di Taiwan, bloccando sul nascere una qualsiasi escalation militare.
Per mettere in prospettiva le dichiarazioni di Trump e provare a diminuirne l’esplosività si può considerare brevemente l’atteggiamento del suo predecessore e immaginare una nuova, possibile strategia a lungo termine di Washington.
Obama, specialmente durante il mandato della Clinton come segretario di stato, ha intensificato il sostegno militare a Taiwan: nel 2010 la sua amministrazione completò un’importante vendita di armamenti e in particolare di sistemi di difesa contro missili balistici, facendo irritare non poco Pechino. A questo vanno aggiunti altri fattori di destabilizzazione, quali l’accordo di cooperazione in materia di difesa con il Vietnam recentemente raggiunto, il fermo sostegno degli avversari delle pretese cinesi sul mar cinese meridionale e il rafforzamento delle alleanze regionali con Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia.
Tutti questi elementi hanno posto le basi per una competizione più accesa fra Stati Uniti e Cina, ma nonostante tutto ciò Obama non ha mai osato mettere in discussione il principio dell’unica Cina, pilastro dei rapporti fra le due potenze. Riconsiderando dunque il mandato di Obama come peggiorativo delle relazioni Sino-Americane, la linea di Trump, paradossalmente, non solo si ricollega a quella del suo predecessore ma anzi la evolve, portandola su un piano inaspettato e molto più delicato.
Ovviamente Trump (formidabile negoziatore) e i suoi collaboratori sanno cosa stanno provocando quando mettono in discussione il principio dell’unica Cina. Questo mi porta quindi a credere che così facendo egli voglia creare un nuovo elemento da scambiare con Pechino per una futura, più dura trattativa, la quale possa riguardare i rapporti commerciali fra i due paesi, tanto cari a Trump, e magari includere il contributo cinese alla gestione della Corea del Nord.
Inoltre, se l’obiettivo della nuova agenda conservatrice americana fosse davvero quello di concentrarsi definitivamente sulla Cina, allora anche l’apparente volontà di riallacciare i rapporti con Mosca servirebbe a tale scopo. Vista in termini puramente realisti, infatti, non sarebbe follia per gli Stati Uniti progettare una grand strategy americana volta a isolare la Cina e prevenire l’incubo di un allineamento euroasiatico fra i due giganti.
Oggi, come all’epoca di Kissinger e Mao, Washington gioca ancora con le carte a sua disposizione pur di dividere i suoi avversari e mantenere la sua influenza e, curiosamente, i giocatori sono ancora gli stessi.