Ospitiamo oggi un post complesso e dettagliato di Stefano Orsi riguardante l’evoluzione del sistema antimissle degli Stati uniti. Buona lettura
Questa breve monografia sulla storia dei sistemi noti al grande pubblico come “Scudo Antimissile” non vuole essere solo una sequenza di caratteristiche tecniche (pure importanti) di diversi sistemi ma anche è un tentativo di ricostruire un quadro d’insieme, che rappresenti la reciproca influenza degli aspetti tecnici e degli indirizzi politici, con la speranza che il lettore possa alla fine farsi un’idea di un processo che ha influenzato in maniera determinante la storia degli ultimi trent’anni. Ovviamente, data la straordinaria complessità dell’argomento, la materia verrà esposta per cenni, sufficienti, tuttavia, a richiamare alla memoria alcuni eventi passati e a meglio contestualizzare l’attualità.
Prima Parte: da Reagan a Clinton
All’inizio degli anni ‘80 la situazione militare degli Stati Uniti non era brillantissima. Il neopresidente Ronald Reagan ereditava dall’amministrazione Carter alcuni problemi di difficile soluzione: sul fronte interno la stagnazione economica, su quello estero lo scacco subito nella gestione del dossier iraniano, simboleggiato dal fallimento dell’operazione Eagle Claw. Nel corso degli anni ‘70 l’Unione Sovietica aveva sopravanzato gli Stati Uniti e la NATO nella produzione e nello schieramento di testate nucleari e anche sul versante convenzionale mostrava una certa intraprendenza, intervenendo in paesi del terzo mondo considerati storicamente appartenenti alla sfera di influenza occidentale.
La presidenza Reagan decise di rispondere in maniera asimmetrica alla sfida quantitativa sovietica, puntando su di una nuova forma di difesa, tale da insidiare il principio di Mutua Distruzione Assicurata o MAD ( Mutual Assured Destruction), l’equilibrio del terrore che aveva garantito, per decenni, quella particolare confronto statico senza confronto militare diretto noto come Guerra Fredda. Il progetto venne battezzato Iniziativa di Difesa Strategica in sigla SDI (Strategic Defence Initiative).
Nel 1983 il Presidente Reagan annunciava per la prima volta questa nuova strategia di difesa, ma soltanto nel 1984 si arrivò ad una presentazione del progetto al Congresso, e venne creato l’apposito Dipartimento nell’organigramma del Ministero della Difesa degli Stati Uniti. Così come presentato, il progetto si articolava in diversi sotto sistemi:
1) il sistema di rilevamento ed “inseguimento” elettronico dei bersagli, i missili nemici in arrivo o in viaggio. La maggiore sfida sotto questo profilo era rappresentata dalla valutazione delle perdite che sarebbe stato possibile infliggere al nemico, valutazione che doveva necessariamente tenere conto della possibilità di discriminazione tra le testate vere ed i finti bersagli (le “esche”) che i missili in arrivo avrebbero sicuramente utilizzato.
2) i sistemi di intercettazione, a loro volta distinguibili in due categorie:
a) armi ad energia cinetica. Si trattava di un sistema d’arma innovativo, che abbandonava la filosofia dei missili terra aria utilizzati sino a quel momento. I sistemi in uso (come i famosi missili Patriot) creavano un’ esplosione prossima al bersaglio, per investirlo con frammenti e corpi ad elevato impatto. Le nuove armi pianificate dalla SDI, invece, avrebbero lanciato appositi proiettili destinati a collidere direttamente con le testate in fase discendente, distruggendole o causandone una notevole perdita di energia cinetica: il sistema hit to kill. Lo sviluppo di queste armi presentava ovviamente diversi inconvenienti tecnici: non ultimo il pericolo che un gran numero di testate in volo sulla rotta polare, colpite da questi proiettili, sarebbero precipitate Canada settentrionale. Tuttavia i progettisti contavano di superare le difficoltà con sistemi più o meno leciti (nel 1993 il New York Times rivelò che i test di impatto dei missili erano stati “accomodati” inserendo nel bersaglio prescelto un sistema tipo radiofaro, che fungeva da segnale di richiamo per il missile killer semplificandone enormemente il compito).
b) armi di nuova concezione ad energia diretta. Vennero presi in considerazione generatori a microonde, acceleratori di particelle e laser ad alta potenza. Di questi lo sviluppo più promettente fu consentito ai sistemi laser, in quanto già allora era disponibile la tecnologia necessaria a costruire armi laser di grande potenza, tanto che nel 1989 venne annunciata la realizzazione di un prototipo efficace contro missili e ogive atomiche.
3) i sistemi finalizzati all’incremento degli abbattimenti dei missili bersaglio, intesi a neutralizzare le possibili contromisure.
4) nuovi sistemi di comando, capaci di elaborare l’imponente mole di dati che sarebbero giunti in tempo reale dalla rete di satelliti e dalle stazioni di rilevamento dei bersagli.
Negli anni ‘80 gli studi e le ricerche si concentrarono anche sui sistemi di propulsione dei razzi, sul miglioramento della qualità dei combustibili e sullo studio di nuovi sistemi di propulsione per futuri veicoli spaziali militari. Si ipotizzava di creare una rete di satelliti integrata con i sistemi antimissile basati a terra.
Una parte di questi satelliti avrebbero sfruttato i laser per distruggere le testate direttamente dallo spazio. Il laser sarebbe stato lanciato da alcuni sistemi in orbita e riflesso da schermi installati su altri.
Oltre alla rete di satelliti “laser” erano previsti sistemi orbitanti di lancio di proiettili per intercettare e distruggere (o far precipitare) le ogive nemiche prima della fase discendente.
In particolare furono questi aspetti a colpire la stampa di allora che battezzò quasi immediatamente l’intero programma SDI con il nome “Guerre Stellari”, parafrasando un noto filone di film di genere uscito nelle sale proprio in quegli anni. Furono anni di grande progettualità, che fornì, se non sistemi immediatamente operativi, un utile bagaglio di esperienze per i programmi successivi.
Il programma denominato ERIS, Exoatmospheric Reentry-epiclesi Interception System, condotto dalla Lockheed approfondì le potenzialità di missili intercettori dotati di veicolo killer incorporante un sensore a scansione infrarossa, un processore di elaborazione dati bersaglio, e capaci di manovrare per correggere la rotta sul bersaglio designato, compensando eventuali variazioni e manovre evasive.
Vennero condotti i primi studi su cannoni a rotaia elettromagnetica, capaci di lanciare proiettili a velocità talmente elevata da impattare le testate in rientro.
Questi sviluppi indussero ad accantonare le tecniche antimissile sperimentate fino ad allora, basate sul lancio di altri missili, a loro volta dotati di testate atomiche, destinati a detonare in prossimità dei vettori in arrivo nel tentativo di distruggerli o di comprometterne la rotta.
L’Iniziativa di Difesa Strategica ricevette anche critiche: ci limiteremo a ricordarne due. Venne osservato che non era contemplato alcun sistema di contrasto agli attacchi nucleari portati da sistemi diversi dai ICBM, come ad esempio quelli eventualmente lanciati con missili cruise, presentati proprio in quegli anni, oppure con i tradizionali bombardieri strategici con metodi non convenzionali. Anche se portato a termine, quindi, il progetto avrebbe creato un falso senso di sicurezza. Ancora più interessante la critica mossa da un ricercatore del MIT, Massachusetts Institute of Technology, il Prof. Ashton Carter, che, su incarico del Congresso, studiò il SDI. Il Prof. Carter concentrò le proprie critiche sui sistemi laser, evidenziando che l’atmosfera avrebbe disperso gran parte dei raggi per rifrazione. Il ricercatore sottolineò quindi che l’utilizzo di questo tipo di armi sarebbe stato efficace solo in caso di schieramento prossimo alle basi di lancio (in territorio sovietico), in modo da minimizzare la dispersione del raggio e massimizzarne l’efficacia. Di questo aspetto dovremo occuparci di nuovo nel seguito della trattazione, esplorando le problematiche poste dai sistemi odierni.
Abbiamo detto che molti dei componenti il sistema SDI erano finalizzati alla intercettazione dei missile ICBM (Missili Balistici Inter Continentali Inter Continental Ballistic Missile). Ma come funzionava un ICBM negli anni ’70? Dobbiamo soffermarci un attimo ad esaminare quest’arma per comprendere le difficoltà tecniche che si ponevano ai progettisti Americani.
Il primo missile balistico moderno è senza dubbio il V2 tedesco, sviluppato dal team dello scienziato Wernher Von Braun. Il tedesco venne trasferito negli Stati Uniti dopo il conflitto e qui fornì un apporto decisivo allo sviluppo del programma missilistico americano. Il principio della V2 venne perfezionato e trasferito negli ICBM, così che ancora negli anni ’70 i vettori avevano sostanzialmente lo stesso funzionamento in 3 fasi:
1) fase di lancio o propulsione (boost phase): il missile , spinto dal suo primo e dal secondo stadio accelera fino alla velocità massima, circa 25.000 km/h. La durata di questa fase è di circa 3 minuti.
2) fase intermedia: terminata la spinta del primo e del secondo stadio, le testate, all’interno del vettore di rientro, percorrono la traiettoria negli strati esterni dell’atmosfera, raggiungono l’apogeo, ed iniziano la discesa.
3) fase di rientro: il vettore continua il proprio tragitto mantenendo la rotta verso il bersaglio designato fino a che, al momento prestabilito, rilascia la testata o le testate, che raggiungono sul bersaglio per esplodere all’altitudine prevista.
L’intero processo di tre fasi (dal lancio alla detonazione) si svolgeva in un tempo massimo di circa 31 minuti. I sistemi in studio alla fine degli anni ‘70 avrebbero dovuto quindi elaborare i dati per studiare l’attacco nemico, identificare le traiettorie, e azionare le contromisure in questo ridottissimo margine temporale.
Un capitolo a parte va dedicato pericolo rappresentato dai sottomarini strategici, adibiti a rampe di lancio mobili posizionabili in prossimità dei bersagli. Si pensò di neutralizzare questa minaccia varando una nuova classe di sottomarini d’attacco che per silenziosità, capacità di occultamento e velocità sopravanzassero grandemente quelli schierati dalle controparti sovietiche. Il varo, la progettazione e l’accantieramento di questa generazione di sommergibili richiese dieci anni. La classe prese il nome dall’unità capostipite: il Seawolf. Questi mezzi di elevatissima qualità tecnica, molto superiori ad ogni altro mezzo, sia sovietico che occidentale, allora in servizio, avrebbero dovuto tallonare, senza essere individuati, tutti i sottomarini lanciamissili nemici. In caso di guerra, ricevuto l’ordine di attacco, avrebbero attaccato le unità bersaglio distruggendole prima che potessero lanciare il loro carico di distruzione.
La fase progettuale venne portata a temine nel 1984, la costruzione del Seawolf fu iniziata nel 1989 e l’unità venne varata nel 1995. Nel frattempo il panorama politico era mutato, e i costi del progetto, previsti in 33,6 miliardi di dollari per il primo lotto di 12 unità, risultarono presto ingiustificabili. Con il crollo dell’URSS cambiarono molte cose, e tra queste le esigenze della Marina Americana, che cancellò la prevista flotta di 29 Seawolf e si accontentò di 3 mezzi.
Il periodo che si aprì dopo il 1989 richiese una revisione drastica delle dottrine militari e un ripensamento integrale dei progetti in fase di sviluppo o realizzazione.
Reagan aveva ultimato i suoi due mandati presidenziali, e il nuovo Presidente, George Bush senior, decise di ridimensionare tutto il progetto delle “Guerre Stellari”, tagliando di conseguenza gli stanziamenti. Tuttavia gli studi non vennero interrotti del tutto: sebbene in gran parte ridimensionata, la ricerca proseguì.
Nel 1991 il Presidente Iracheno Saddam Hussein, oberato di debiti per aver sostenuto lo sforzo decennale di una guerra con l’Iran, decise di invadere il ricco Kuwait, che oltretutto vantava ingenti crediti nei confronti di Baghdad, e di occuparlo per rinforzare la propria leadership e finanziare le casse statali con l’ingente bottino.
Ne scaturì un conflitto locale, ma a cui presero parte numerosi Paesi.
La guerra fornì agli Americani l’occasione per mettere alla prova alcuni dei loro intercettori. La prova non venne considerata del tutto soddisfacente.
L’esercito iracheno disponeva di diverse piattaforme di lancio di missili SCUD, e i sistemi statunitensi mostrarono dei limiti sia nella individuazione e distruzione delle rampe mobili, spesso date per colpite quando invece non lo erano state, sia per la difesa, non perfetta, fornita dai missili Patriot.
Gli Stati Uniti persero 28 uomini nel bombardamento della base di Dhahran in Arabia Saudita, e anche Israele, nonostante lo schieramento di missili Patriot, venne ripetutamente colpito dagli antiquati sistemi iracheni, con notevole danno d’immagine.
Questi parziali insuccessi spinsero il Presidente Bush a rilanciare gli studi e le ricerche finalizzati all’approntamento di un efficace sistema antimissile. Furono ripresi e rivisti tutti gli obbiettivi del progetto, alla luce dei nuovi scenari internazionali, dei progressi scientifici del decennio trascorso, e di un nuovo ordine di priorità fissato.
Il sistema voluto da George Bush era meno grandioso dello SDI, e partiva dal presupposto che l’antagonista non sarebbe stato un avversario munito di centinaia o migliaia di testate (come l’Unione Sovietica o la Russia), ma bensì un soggetto capace di lanciare qualche decina di missili (come l’Iraq, l’Iran o la Corea del Nord).
Questo nuovo progetto fu denominato GPALS (Global Protection Against Limited Strikes) e prevedeva, coerentemente con i propri ridotti obbiettivi, l’impiego di un numero di satelliti molto minore rispetto a quello immaginato dall’SDI.
Questo ridimensionamento era anche conseguenza di una maggiore consapevolezza delle difficoltà tecniche: gli studi del decennio precedente avevano infatti portato alla luce grossi problemi relativi alla possibilità di elaborare in tempo utile l’enorme massa di dati che sarebbe giunta durante una fase di attacco. Oltre a questo, i progetti miranti alla distinzione tra le testate atomiche vere e le eventuali esche lanciate dal nemico non avevano realizzato i progressi sperati.
Il Presidente Bush non ottenne un secondo mandato: venne infatti eletto il suo sfidante Bill Clinton, il quale intervenne di nuovo rimaneggiando il progetto rivedendone tutti gli obiettivi, anche sull’onda delle accennate rivelazioni del New York Times a proposito dei test falsificati.
Sia la SDI che la GPALS, costati ai contribuenti circa 40 miliardi di dollari di allora, vennero accantonate.
La priorità venne data al contrasto di una nuova minaccia, posta non più dagli ICBM, missili a lungo raggio, ma dalla proliferazione di missili tattici e tuttavia capaci di trasportare anche testate nucleari. Il nuovo progetto, denominato BMDO (Ballistic Missile Defence Organization) venne ribattezzato dalla stampa “Guerre Stellari 2”.
Le attenzioni del Pentagono si concentrarono quindi su due fronti:
1) sistemi di rilevamento ed elaborazione dei dati del bersaglio o dei bersagli, basati a terra;
2) sistemi di intercetto missilistici con caratteristiche migliori di quelle dei Patriot. Vennero sviluppati, per conseguire questi obiettivi, i sistemi ERINT (Extended Range Interceptor) e THAAD (Theater High Altitude Area Defense).
Le specifiche allo studio prevedevano che questi missili intercettori avessero portata fino a 160 Km, quindi molto maggiore degli 8 km dei Patriot e che fossero in grado di colpire bersagli balistici in avvicinamento anche a velocità ipersonica.
Questo progetto di difesa proseguì per tutti i due mandati presidenziali di Bill Clinton, fino all’elezione, di G. W. Bush, figlio di George senior.