Ospitiamo da oggi, per la sezione del Pacifico Occidentale, gli articoli dell’ing. Paolo Borzatta, profondo conoscitore delle dinamiche geopolitiche cinesi e dell’estremo oriente continentale. Siamo certi li troverete estremamente interessanti. Ringraziando AGI e l’autore per questo prezioso contributo.
Pechino, 18 gen. – “Adesso anche l’economia cinese è in difficoltà come tutti.” Questo è il leit motiv di molti economisti occidentali in molte recente riunioni, alle quali ho avuto occasione di partecipare, di analisi dello scenario del 2016.
Spesso si sono dilungati su questa affermazione con mal nascosta soddisfazione. La loro tesi implicita, a volte anche abbastanza esplicita, è che “i paesi sono più o meno tutti uguali”.
Dietro questa posizione, che riaffiora ciclicamente da decenni nelle analisi occidentali del fenomeno Cina, ci sono oggi – a mio parere – almeno due errori gravissimi.
Il primo errore è specifico sulla Cina ed è il non voler accettare che il paradigma di sviluppo cinese possa essere sostanzialmente diverso da quello occidentale, almeno per un tempo sufficientemente lungo.
Il secondo errore, più generale, è il voler utilizzare (solo) l’ottica economica per l’analisi della situazione attuale.
Cominciamo dal primo. La Cina ha una cultura millenaria profondamente diversa da quella occidentale. Gli altri paesi dell’“occidente” hanno sì culture diverse, a volte anche molto diverse, ma hanno tutti le stesse radici greco-latine. Anche nelle loro lingue ci sono strutture di base identiche o simili. Inoltre la storia di Atene più il millennio di sviluppo civile inglese e le rivoluzioni francese e americane hanno innestato nella cultura occidentale dei forti cromosomi politici.
La Cina ha, da tutti questi punti di vista, cromosomi molto differenti che non è qui il caso di analizzare. Inoltre ha oggi una popolazione di un miliardo e mezzo di abitanti. Non c’è alcuna ragione logica – a mio parere – per pensare che il percorso di sviluppo di questo popolo debba seguire lo stesso percorso delle nazioni occidentali che hanno una cultura diversa e che si sono sviluppate con popolazioni che contavano poche decine di milioni di persone. L’attuale interazione con l’occidente può sicuramente influenzare in parte (in senso occidentale) la cultura cinese. Potrebbe anche occidentalizzarla cospicuamente (nei tempi molto lunghi), ma non è una certezza e la probabilità che invece permanga in Cina una forte cultura cinese poco permeabile ai valori e ai comportamenti occidentali è non piccola.
In aggiunta a non considerare questi dati di fatto, si tende poi a voler leggere la situazione cinese prevalentemente con l’ottica economica. Questo in un momento in cui le variabili non-economiche tendono ad essere prevalenti in Cina e nel mondo.
E così veniamo al secondo errore.
Per comprenderlo partiamo da due semplici domande.
Prima domanda: se una persona è straordinariamente ricca, seguirà necessariamente la razionalità economica nelle sue scelte? Ovviamente no: seguirà semplicemente il suo estro.
Seconda domanda: se un popolo è convinto di essere stato maltrattato e desidera “liberarsi” seguirà la razionalità economica nelle sue azioni? Ovviamente no: le rivoluzioni (et similia) sono sempre state irrazionali.
Ebbene questa è la situazione nel mondo oggi e noi occidentali non vogliamo vederlo.
Cominciamo dalla Cina.
Il successo della rinascita cinese, avviata da Deng Xiao Ping, ha portato la Cina a essere estremamente ricca. Le sue riserve in valuta estera (a fine 2015) erano oltre i 3,3 trilioni di USD da confrontare con 1,2 trilioni dell’Unione Europea (somma dei 28 paesi), 1,2 trilioni del Giappone e 0,1 trilioni degli Stati Uniti! Inoltre il suo saldo corrente di 276 miliardi di USD (ultimi dodici mesi) è il più alto in assoluto (eccetto l’area euro che ne ha 346) e da confrontare con il saldo negativo degli Stati Uniti (-457).
Questo permette alla sua leadership di procedere nella realizzazione del “sogno cinese” di riprendersi il posto di grande nazione (e in un certo senso di grande potenza culturale e sociale, prima che militare) che la Cina ha sempre avuto nei millenni passati (fino a metà settecento, circa). Questo “sogno” oggi incarnato da Xi Jinping (Presidente cinese e anche Segretario del Partito Comunista Cinese) è però ben radicato nell’animo del popolo cinese (si legga The Hundred-Year Marathon di Michael Pillsbury) e capace di motivarlo e unirlo per molti decenni a venire.
Certo la Cina ha molti problemi da risolvere oggi: il ri-orientamento dell’economia da piattaforma produttiva mondiale a economia di servizi, l’inquinamento, il rallentamento dell’economia (stiamo però parlando di una crescita che rimarrà superiore al 5% annuo per oltre un decennio, anche nelle previsioni più pessimistiche), il ridimensionamento e la ristrutturazione delle aziende statali, ecc.
Ma ha una leadership salda che sta facendo le mosse giuste (ad esempio la campagna anticorruzione: oltre 200.000 funzionari puniti) per ulteriormente rinforzare il Partito Comunista. Non sembrano inoltre esistere aneliti così diffusi di libertà politica, se non una richiesta di maggiore trasparenza della leadership, che possano mettere a rischio la stabilità politica.
Sono invece molto interessanti le mosse che Xi Jinping sta facendo a livello mondiale (oltre a spronare vigorosamente le aziende cinesi a espandersi nel mondo): l’affermazione del dominio cinese nel Mar Cinese Meridionale (con anche la costruzione di una base militare su alcuni scogli contesi con gli altri Stati dell’area), la tirata di redini su Hong Kong, l’affermazione delle pretese cinesi su Taiwan, il lancio delle Due Nuove Vie della Seta (terra e mare), la creazione dell’ Asian Infrastracture Investment Bank (AIIB), la posizione “super partes” nei conflitti nell’Asia Centrale e in Medio Oriente (ISIS, sunniti vs sciti, ecc.), ecc.
Alcuni commenti su questi punti.
La base aero-navale cinese costruita su pochi scogli e l’instaurazione del diritto di controllo aereo nell’area. Non so se i diritti cinesi sono validi o no, le nazioni che li contestano hanno protestato. Gli Stati Uniti hanno sorvolato la zona senza chiedere permesso, hanno inviato navi militari. Però poi se ne sono andati e la base militare cinese è oggi operativa e finita. Non credo realistico pensare che gli Stati Uniti (o altri) intervengano militarmente per far sloggiare i cinesi.
Gli studenti di Hong Kong hanno perso la battaglia (probabilmente giusta, dal nostro punto di vista occidentale). Stanno probabilmente covando ancora voglia di vera indipendenza politica dalla Cina. Ma intanto la Cina ha rallentato il processo e sta implementando sul proprio territorio a nord di Hong Kong (Shenzhen, Dongguan, Canton, ecc.) e in altre parti della Cina (Shanghai) politiche tese a scalzare la supremazia finanziaria e commerciale di Hong Kong e a trasferirla a entità e territori politicamente più malleabili ed affidabili.
L’incontro di pochi mesi fa tra Xi Jinping e l’allora Presidente di Taiwan Ma Ying-jeou (il cui partito era evidente che sarebbe stato quasi sicuramente sconfitto alle elezioni di sabato scorso) è servito magistralmente a Xi Jinping per affermare che è tuttora valido il Consenso del 1992 che dice che “esiste una sola Cina”. Xi Jinping ha anche dichiarato che non si può più procrastinare all’infinito la soluzione dello status di Taiwan. La nuova Presidente (e il suo alleato e difensore: gli Stati Uniti) dovrà tenerne conto se non vuole mettere in moto una guerra guerreggiata che non potrà che essere mondiale (gli Stati Uniti hanno un trattato di difesa militare di Taiwan dall’eventuale aggressione cinese).
Il lancio delle Due Nuove Vie della Seta (One Belt, One Road) è un’altra mossa geopolitica di grande peso da parte del Presidente cinese. Il progetto di ristrutturare e potenziare i collegamenti terrestri e marittimi tra Pechino e l’Europa (si noti che nei piani cinesi, il terminale europeo della via della seta marittima sarebbe Venezia) metterà in moto investimenti colossali e servirà alla Cina per meglio spostare le sue merci oltre che per affermare la sua “supremazia” su tutta l’Asia centrale e sui Paesi lungo l’Oceano Indiano. Una prima stima (The European House Ambrosetti – Conferenza preparatoria del Qianhai Forum) valuta in oltre 200 trilioni di USD gli investimenti che verranno fatti nei prossimi vent’anni grazie a queste infrastrutture. Xi Jinping è già andato, a inizio 2015, in Pakistan portando 50 miliardi di USD come dono per aiutare il Pakistan a creare le infrastrutture che serviranno a connettere il centro della Cina con l’Oceano Indiano via Pakistan. Xi Jinping ha anche lanciato la AIIB come banca, a influenza cinese, per finanziare questi enormi investimenti infrastrutturali, con in più il risultato di mettere sotto influenza cinese una grande istituzione finanziaria multilaterale dopo che l’occidente (Stati Uniti in testa) ha sempre fatto orecchi da mercante alla richiesta cinese di avere maggiore peso nella World Bank e nell’Asian Development Bank.
Xi Jinping è in questi giorni in Iran e in Arabia Saudita, i due grande nemici che usano le proprie differenze religiose (musulmani sunniti vs musulmani sciiti) per motivare lo scontro per il dominio dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Ha dichiarato che intenderà cercare di trovare il modo di far collaborare tutti contro il comune nemico ISIS, mettendosi così in una posizione di padre che guarda con distacco ai “capricci dei suoi pargoli”. Si noti che gli Stati Uniti (per la loro tradizionale “amicizia” con l’Arabia Saudita motivata da esigenze di approvvigionamento petrolifero e di controllo delle turbolenze politiche dell’area e per la loro storica avversione all’Iran) non sono in grado di prendere la stessa posizione “alta”.
Tutto questo per dire che la Cina è stabile politicamente, ha un’economia che – pur con qualche problema contingente da risolvere – è forte e ricca, ha una leadership con una chiara visione per il futuro, che ha il consenso viscerale della popolazione, e ha ripreso a muoversi in Asia con il respiro di un impero.
L’impero cinese ha visto nei suoi millenni di storia momenti di grande stabilità durante importanti dinastie e poi grandi momenti di transizione tra una dinastia e l’altra. Queste transizioni duravano decenni e attraverso profondi rivolgimenti sociali ed economici preparavano la base di un nuovo periodo di stabilità e di stabile progressione.
Con il crollo della dinastia Qing (1911) è cominciata una nuova transizione. Una prima fase della transizione fu il periodo della rivoluzione comunista e del maoismo (1911 – 1976) in cui gli elementi “obsoleti” del sistema imperiale (chi deteneva il potere e com’era scelto, criteri di distribuzione della ricchezza, valori condivisi, ecc.) furono erasi con la forza. È poi seguita una seconda fase, dominata dalla visione di Deng Xiaoping (1977 – 2014) di accettazione e integrazione nel sistema “comunista” di alcuni valori e metodi “moderni”: la libera impresa, il mercato, l’imprenditorialità, criteri di distribuzione della ricchezza più meritocratici, ecc. Oggi credo che siamo di fronte ad una nuova fase di stabilità imperiale.
Questo però avviene in un contesto mondiale molto preoccupante per l’occidente.
La dominanza dell’Eurasia è di nuovo in gioco con tutto quello che comporterà. Se la contendono le mire imperiali della Russia (Putin vuole ricostruire la sfera d’influenza che la Russia si era costruita in secoli), la Turchia vuole riprendere il suo ruolo (di quando era l’impero ottomano) nella stessa area, l’Iran ha mire simili di fronte ad un mondo arabo in grave difficoltà e con la minore importanza delle sue scorte di petrolio.
Gli Stati Uniti sembrano in difficoltà in primis perché sono “talebanicamente” divisi al loro interno con lotte partigiane tra democratici e repubblicani che non erano mai esistite in passato. Anzi in passato la forza degli Stati Uniti è sempre stata che era chiaro a tutti che l’interesse nazionale veniva prima di ogni altro. Oggi non è più così e anche il “sogno americano” comincia a fare acqua.
Tutto questo segnala che il gioco in corso a livello geopolitico è motivato e condotto con motivazioni e forze che sono essenzialmente di volontà e di visione. La variabile economica ne è solo un elemento.
In questa situazione L’Europa sarebbe l’unica ad avere le carte in regola per giocare un ruolo di bilanciamento della Cina perché è tuttora la più grande economia del pianeta (anche se non lo comunica chiaramente) e ha una cultura e una tradizione che le potrebbero permettere di essere una “grande potenza” economica, morale e culturale.
Ma non ha una visione (strategica) condivisa per il suo futuro e i suoi cittadini e i suoi stati membri litigano per i propri interessi particolari mancando all’appuntamento storico che la situazione mondiale attuale pone. Potrebbe avere un grandissimo ruolo di elaborazione di un nuovo paradigma sociale e istituzionale (come ha ripetutamente fatto nella sua storia millenaria: la democrazia greca, le istituzioni civiche e la strategia tecnico-militare romane, il parlamento inglese, la libertà e i diritti umani francesi e americani), ma non lo riconosce e forse non lo sa nemmeno. Come neanche si è veramente accorta che l’impero cinese è ritornato.
Photo: DoD photo by Erin A. Kirk-Cuomo