L’Austria, centro d’Europa, un paese geograficamente circoscritto, prudente mediatore tra le divergenti istanze del Vecchio Continente. Uno stato moderno dal mediocre presente ma con una grande eredità imperiale, fasti regali, culla di arte, musica, letteratura. Crocevia di dimensioni geopolitiche e culturali – alpina, balcanica, mitteleuropea, est-europea; rilevante snodo logistico di merci, sistema-paese attrattivo per investimenti esteri, industrie straniere beneficianti di sgravi fiscali e transfrontalieri del lavoro che contribuiscono attivamente al benessere – ed al generoso welfare – dello stato. Una politica estera basata sui pilastri della neutralità – costituzionalmente sancita e difficilmente mutabile – e dell’appartenenza all’Unione Europea; la proiezione internazionale di Vienna si espleta in un precipuo interesse verso aree strategicamente rilevanti: l’Europa Centro-Orientale, il Mar Nero – inteso come estensione geografica del bacino danubiano – i Balcani. Proprio per quest’ultima regione, profondamente correlata all’Austria per contingenze storiche, dati i plurimi interessi economici, Vienna – coadiuvata dall’Italia – si fa portatrice in sede comunitaria di iniziative volte alla stabilizzazione e al rafforzamento delle prospettive dell’area (non ultimo lo stesso allargamento dell’Unione verso stati balcanici). Un futuro, tuttavia, consegnato alla persistente inquietudine da problematiche demografiche. Sebastian Kurz, “Wunderwuzzi”, l’enfant prodige della politica austriaca, mette in moto una possibile rivoluzione generazionale. Affascinato dalla politica, abbandona gli studi in legge prematuramente, entrando nell’esecutivo a 24 anni quale sottosegretario all’integrazione – parte del Ministero degli Interni austriaco; deputato del Nationalrat, Consiglio Nazionale austriaco (camera dei rappresentanti del Parlamento transalpino) a 26 anni, divenendo il candidato con più preferenze alle elezioni del 2013; Ministro degli Esteri ad appena 27 anni. Le sue incontrovertibili abilità ne incrementano progressivamente le credenziali diplomatiche, tramutandolo in una stella della politica internazionale. Stallo istituzionale, lieve declino degli standard di vita, stagnazione economica, adozione di politiche “austerity”, incapacità di fronteggiare efficacemente la crisi dei migranti, sono alcuni dei fattori che hanno concorso all’erosione del consenso verso i tradizionali partiti del sistema politico, Popolari e Socialdemocratici; ne consegue, inevitabilmente, l’esponenziale crescita dei partiti a margine del sistema stesso, estremisti, tra cui l’ultradestra dell’FPÖ – molto vicina alla conquista della Presidenza della Repubblica un anno fa. D’altronde, sin dal 1945, in 13 governi su 21, per 45 anni su 72, l’Austria è stata governata da una Große Koalition. Molte volte per assenza di alternative, altre per la massimizzazione della rappresentanza sociale in seno all’esecutivo. Eppure l’economia austriaca cresce oltre la media europea, la disoccupazione si attesta al 5,9%, il PIL pro capite è di oltre 45.000 euro; il paese è uno fra i più “virtuosi” dell’Unione Europea e dell’eurozona. Ma la crisi economica, congiuntamente a quella migratoria, è stata percepita dalla popolazione – il forte incremento del debito pubblico è un lampante esempio – ed un cambio era necessario. L’Austria, infatti, vira a destra. Consegnato alla storia dalle recenti elezioni, Sebastian Kurz sarà, ad appena 31 anni, il prossimo cancelliere austriaco. Con una partecipazione attestatasi al 79% (+4,5 rispetto alla tornata elettorale del 2013), i popolari austriaci ottengono il 31,6 % dei suffragi, i socialdemocratici – nonostante la generale crisi della socialdemocrazia chiusa ermeticamente nei tecnicismi governativi – il 26,9% ed i nazionalisti di Strache il 26%. Oltre il 55% dell’elettorato austriaco, dunque, ha premiato formazioni partitiche di destra. Il conservatorismo popolare, la destra “dura” come è stata definita quella impersonata da Kurz, conseguentemente ad un radicale mutamento – teste saltate nei quadri dirigenziali e perfino il colore del movimento, che da nero è passato al blu – trionfa. L’establishment, democristiani e centristi – in una più generale tendenza europea – costretti a spostarsi a destra e rincorrere le istanze nazionaliste, adottando argomenti ed opinioni politiche un tempo considerati tabù per prevenire la crescita di partiti estremisti. La coalizione di governo, presumibilmente, nonostante le difficoltà prevederà un alleanza tra i popolari e la FPÖ. Importante, per l’Italia, sarà comprendere la politica estera dell’esecutivo che verrà, le modalità con cui Vienna gestirà la crisi migratoria. La politica austriaca tutta, non solo la destra, ha dimostrato di essere molto sensibile alle politiche di sicurezza e migratorie (avendo già stabilito una quota massima annuale di richiedenti asilo, vietato il velo integrale).
Proprio Kurz, da Ministro degli Esteri, in sede comunitaria propose con forza l’adozione del rigido modello “australiano”, e fu uno dei principali artefici della chiusura della rotta balcanica. Ebbene, le prospettive per l’Italia non sono buone: le frontiere rimarranno chiuse, con lo schieramento di contingenti dell’esercito al Brennero per prevenire fughe illegali. Da attendersi, inoltre, un ulteriore slittamento del paese verso l’asse dei “Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) ed ancor più ferma opposizione alle direttive comunitarie in materia di migranti. Il sospiro di sollievo tirato per la sconfitta della Le Pen e dell’olandese Wilders, è stato forse prematuro.