Nella notte tra venerdì e sabato abbiamo assistito ad un atto di guerra contro l’Arabia Saudita, un vero atto di guerra, come veri atti di guerra sono stati quelli compiuti nel Golfo dell’Oman e nel Mare Arabico alcune settimane fa. Una cosa accumuna questi atti di guerra, il loro obiettivo e cioè danneggiare le esportazioni di greggio saudita. In questa occasione diversi ordigni hanno determinato vasti incedi e devastazioni massive a carico della più grande raffineria del mondo, dove viene gestita circa la metà del greggio estratto da Riyad. È stato subito evidente che non si trattava di un incidente comune, ma che era stato compiuto un vero e proprio attacco alla raffineria. In un primo tempo, in base alla storicità dei fatti, i maggiori analisti mondiali hanno pensato si potesse trattare di un attacco portato da droni in possesso degli Houti yemeniti. Ma dopo alcune ore sono stati ritrovati i frammenti di alcuni ordigni intercettati dai sistemi di difesa aerea saudita. I frammenti erano altamente compatibili con un missile da crociera a lungo raggio sviluppato e dispiegato dalle guardie della rivoluzione iraniana che prende il nome di Quds-1 nella denominazione degli Houti yemeniti. La raffineria di Abqaiq è difesa in maniera imponente contro eventuali attacchi aerei e missilistici: sono presenti o in zona tra batterie Patriot PAC-3 e una decina di batterie Hawk. Lo Yemen, ed il suo spazio aereo, sono attentamente monitorati ed il lancio di una decina di missili non passerebbe inosservato. Allora perché è stato colpito l’impianto saudita di Abqaiq? Come mai le difese aeree sono state colte impreparate? Una possibile spiegazione consiste nel fatto che i missili non siano originati dallo Yemen ma dalla regione sciita dell’Iraq meridionale. Il fatto sembra supportato da un video girato nella parte occidentale del Kuwait nel quale si percepisce nettamente il rumore dei turbofan dei cruise mentre sorvolano un gruppo di beduini nel deserto. Giungendo da quella direzione é più semplice evitare il rilevamento da parte dei sistemi di allerta precoce, che si concentrano in direzione dello Yemen e del Golfo Persico. Fatto non secondario è il posizionamento delle batterie Hawk che sono state dispiegate per far fronte ad un attacco iraniano e non da parte irachena. Così, solo i sistemi Patriot hanno potuto ingaggiare le minacce, ma non con la necessaria flessibilità sul cortissimo raggio.
Vanno in ogni modo evitate tutte le teorie complottistiche che parlano già di un false flag americano e degli stessi sauditi per poter scatenare una guerra contro l’Iran, le milizie filo sciite dello Yemen hanno infatti rivendicato l’attacco mettendo fine ad ogni idea di false flag.
Dietro questo atto di guerra è, per chi scrive, evidente la strategia iraniana. Il paese guidato dalla teocrazia integralista sciita degli ayatollah subisce in questi mesi le sanzioni americane che limitano la possibilità di Teheran di vendere a prezzo di mercato il greggio di produzione nazionale, allo stesso modo l’Iran cerca di far si che il suo principale nemico della regione subisca lo stesso danno relativo alla produzione ed export di idrocarburi. Ricordiamo tutti le parole della Guida Suprema iraniana, del Presidente e dei generali dei Pasdaran riguardo la postura iraniana nel caso in cui fosse impedito a Teheran di esportare il proprio greggio: “Se non potremmo vendere il nostro petrolio allora nessuno nella regione potrà farlo”. Gli attacchi, o meglio gli atti di guerra di questi giorni, non sono altro che la messa in pratica delle minacce iraniane.
Ma con questa manovra l’Iran non ha attaccato solo l’Arabia Saudita bensì ha messo sotto minaccia tutto il sistema petrolifero mondiale, il quale potrebbe subire forti oscillazioni alla riapertura dei mercati asiatici nella mattina di lunedì.
La continua e sempre maggiore minaccia iraniana ai vicini della regione (va ricordata anche la sempre più pervasiva presenza iraniana ai confini settentrionali di Israele), è indubbiamente dovuta anche alla continua carenza sullo scacchiere strategico di una forte capacità’ di deterrenza degli Stati Uniti. La mancata rappresaglia militare diretta, al tempo degli attacchi contro le petroliere all’imboccatura dello Stretto di Hormuz, ha innescato nelle alte sfere iraniane un concetto semplice: l’America, ed il suo presidente per primo, temono un conflitto armato, non importa dove, non importa contro chi. L’America da 10 anni a questa parte ha paura del conflitto armato e alla fine tende a cedere dinanzi alle minacce, siano esse di Al Assad, di Kim Jong Un, di Maduro o di Putin, oppure ora dell’Iran; ecco perché ora Teheran ha alzato la posta, e lo ha fatto non a caso dopo le dimissioni di John Bolton lette dai Pasdaran come il desiderio di Trump di evitare ad ogni costo il conflitto militare. Riteniamo questa considerazione sulla propensione al confitto di Trump profondamente errata. Il presidente americano ha sempre affermato di ritenere lo strumento militare l’extrema ratio riguardo alla tutela della sicurezza nazionale e degli alleati privilegiati dell’America. Trump ha sempre affermato che egli desidera esplorare ogni via pacifica e diplomatica prima di ricorrere alle armi, e così ha fatto in passato. Egli però soffre di un punto debole nella sua strategia. Questo punto debole è rappresentato proprio dalle scelte del suo predecessore che hanno minato alla base la capacità di deterrenza della Casa Bianca. Riteniamo che però oggi gli Stati Uniti siano pronti ad un confronto militare con gli iraniani, sia per i recenti spostamenti di materiale militare verso il Golfo sia per una evento del tutto unico accaduto due giorni fa.
Da Norfolk è salpato il gruppo attacco portaerei della Truman composto da un incrociatore Ticonderoga, quattro cacciatorpedinieri classe Burke e (probabilmente) da due sottomarini da attacco nucleari. C’è un problema però nella composizione di questo CSG (Carrier Strike Gruop) e cioè che manca la portaerei che è rimasta alla banchina della base di Norfolk. Ufficialmente la Truman soffre di problemi di tipo elettrico e quindi non può prendere il mare, ma va considerata invece un’altra possibilità.
All’interno del Golfo una portaerei oggi sarebbe un obiettivo molto pagante per l’Iran in caso di conflitto, un obiettivo relativamente lento e poco manovrabile, rilevabile con estrema facilità dai radar iraniani e possibile oggetto di un attacco combinato di missili e reparti suicidi delle Guardie della rivoluzione (sia in mare che in cielo).
La partenza di questa task force navale senza la porterei potrebbe quindi indicare che gli Stati Uniti si preparino a colpire in Iran.
Ma oggi anche l’Arabia Saudita avrebbe pieno diritto di una rappresaglia militare proporzionale contro obiettivi strategici iraniani, in risposta a quello che a tutti gli effetti è l’atto di guerra che ha dimezzato la produzione petrolifera saudita, rischiato di uccidere decine di persone e minato alla base la fiducia degli investitori nella Aramco (la compagnia petrolifera nazionale di Riyad). Una rappresaglia proporzionale potrebbe riguardare i terminal petroliferi iraniani nei pressi di Hormuz in modo tale che l’Iran comprenda come l’uso della forza non sia un mezzo utile a portare il mondo interno lungo il sentiero deciso dalla teocrazia degli ayatollah.