Vi proponiamo un interessante post di Enrico Barranu sulla questione curda
Notizie contrastanti arrivano in questi giorni per il popolo curdo di Siria e Iraq. Proprio mentre l’offensiva per la riconquista di Mosul sembra aver preso nuovo slancio e in Siria lo YPG continua ad avanzare nel governatorato di Raqqa, nuovi sviluppi richiedono un aggiornamento sulla situazione delle entità curde semi-indipendenti nei due paesi del Vicino Oriente.
Partiamo dall’Iraq, dove la comunicazione politica e la collaborazione militare fra la regione curda e il governo centrale si sono intensificate nel corso degli ultimi mesi. Ricordiamo l’offensiva scatenata quest’estate dai Peshmerga a ovest di Erbil che ha immediatamente preceduto l’operazione per la liberazione di Mosul, attualmente in corso. Le milizie curde si erano attestate su una linea di difesa che circondava il territorio intorno alla grande città del nord del paese, lasciando il compito di condurre l’offensiva finale alle forze governative. Tale collaborazione militare è sicuramente stata il frutto di una trattativa politica sottostante, di cui però è difficile prevedere le implicazioni.
Il primo segnale positivo forse è arrivato il 21 di gennaio scorso: un responsabile del PUK ( Patriotic Union of Kurdistan ) ha rivelato che una delegazione dei cinque maggiori gruppi presenti all’interno del parlamento del Kurdistan iracheno incontrerà il governo di Baghdad per discutere sulla questione dell’indipendenza.
La proposta è il risultato del lavoro congiunto dei due partiti che costituiscono la coalizione di governo all’interno dell’assemblea regionale curda: il KDP ( Kurdistan Democratic Party ), che detiene la maggioranza relativa dei seggi ed è guidato da Masoud Barzani, e il PUK. Escluso invece dai colloqui il Gorran, il “movimento per il cambiamento”, principale formazione d’opposizione. Partendo dall’insuccesso del sistema federale, il portavoce del KDP ha chiarito che il cuore della proposta è quello di diventare “due governi diversi l’uno a fianco all’altro ed essere buoni vicini”.
Tutto ciò è avvenuto parallelamente alla partecipazione di Barzani stesso al World Economic Forum di Davos. Nel contesto dell’evento, il leader curdo ha incontrato l’ormai ex vicepresidente Joe Biden per discutere delle relazioni con gli Stati Uniti. Barzani ha richiesto che le truppe e il supporto americano rimangano anche dopo la cacciata dello Stato Islamico da Mosul e dal nord dell’Iraq.
In un intervista rilasciata al Washington Post, egli ha dichiarato che l’indipendenza curda “non è né una pettegolezzo, né un sogno, ma una realtà che si dovrà raggiungere pacificamente”. Barzani si auspica un’ottima collaborazione con l’amministrazione Trump, il quale sembra deciso a impegnarsi più seriamente, anche dal punto di vista militare, per sconfiggere ed “eradicare il radicalismo islamico”. Il leader curdo ha ribadito più volte il ruolo che i Peshmerga hanno avuto e hanno tuttora nel combattere il terrorismo nella regione, lasciando intendere che questo deve continuare a essere il pilastro della collaborazione con gli Stati Uniti.
Non è chiaro se la strategia di Trump sia quella di supportare allo stesso modo del suo predecessore le milizie curde in Medio Oriente. Vero è che i curdi si sono dimostrati formidabili avversari dello Stato Islamico, riuscendo a difendere i propri territori e guadagnando prestigio politico. Tuttavia, se davvero l’impegno diretto americano ritornasse a concretizzarsi militarmente, allora potrebbero perdere quella moneta di scambio che molto li ha avvantaggiati negli ultimi anni.
Veniamo adesso alla Siria, dove la situazione appare senz’altro più complessa per la regione autonoma del Rojava. Le principali novità degli ultimi giorni possono offrire degli spunti per comprendere meglio cosa potrebbe avvenire in futuro.
In primo luogo, il PYD (Democratic Union Party), principale partito curdo d’opposizione nel paese, non parteciperà ai colloqui di Astana, dove le principali fazioni protagoniste nel conflitto siriano converranno per cercare di trovare una soluzione politica.
Il PYD e la sua espressione armata, lo YPG (People’s Protection Units), rappresentano la maggioranza delle Syrian Democratic Forces (SDF) e, di fatto, controllano il territorio del Rojava. Data l’affinità e la vicinanza con i movimenti politici e d’insurrezione presenti in Turchia, il governo di Erdogan li ha sempre etichettati come gruppi terroristici, evitando ogni distinzione con il PKK.
L’esclusione del PYD dai colloqui è sicuramente stata una delle “conditio sine qua non” che Erdogan ha imposto durante gli incontri con la Russia per concedere una partecipazione turca. A differenza degli Stati Uniti, che sostengono il PYD come sorta di loro “braccio armato” contro il terrorismo nel nord della Siria, la Russia di Putin non ha di queste costrizioni diplomatiche e ha quindi assecondato la richiesta turca.
Questa mossa, unita alla vittoria militare di Aleppo, ha consentito di sbloccare un’impasse politica molto complicata. Il mancato riconoscimento del PYD costituisce una vittoria diplomatica per la Turchia, che ha sempre dichiarato di voler proseguire la guerra anche nei territori appena liberati dalle milizie curde. Un altro vincitore indiretto è Assad e il suo principio di “Siria unita”, che ovviamente non prevede alcuna forma federale per includere l’esperimento politico del Rojava.
In secondo luogo, una serie di novità di carattere militare sembra confermare la solidità dell’accordo politico sottostante fra Siria, Russia e Turchia. La prima è la decisione di Russia e Turchia di effettuare bombardamenti coordinati contro lo Stato Islamico. La seconda, di questo venerdì, arriva dal comando turco, che avrebbe lasciato il compito di conquistare la città di al-Bab all’esercito siriano. Immediatamente dopo questi segnali, le “Tiger Forces” della SAA (Syrian Arab Army) hanno cominciato un’offensiva a est di Aleppo che sembra proprio puntare verso al-Bab.
Bisogna ricordare che fu il successo dell’offensiva di Manbij, condotta dallo YPG, a spingere la Turchia a intervenire per scongiurare l’eventualità che una singola entità politica a guida curda si formasse lungo tutto il confine meridionale con la Siria. L’intervento turco creò un’area cuscinetto fra le due sezioni del Rojava e mirava a conquistare la città strategica di al-Bab. Per capire l’importanza di questo cambio di rotta turco, basti ricordare lo sforzo militare messo in piedi per assediare e conquistare tale snodo strategico e le numerose dichiarazioni infuocate di Erdogan.
Non sappiamo ancora se al-Bab faccia parte della trattativa Russo-Turca o se sia stata la strenua resistenza dei miliziani dello Stato Islamico ad aver fiaccato lo slancio delle truppe sostenute e armate dalla Turchia. Quello che bisogna evidenziare sono le prime tracce di una collaborazione diplomatica e militare fra attori politici che hanno in comune il desiderio di evitare il riconoscimento del Rojava e dell’esistenza del PYD.
La Russia si comporta da perno di un fragile disegno, che però appare l’unico fino a questo momento in grado di prospettare una soluzione politica al conflitto. Parallelamente, gli Stati Uniti, ora guidati da Trump, si apprestano a riavvicinarsi a Mosca, cosa che rende improbabile l’appoggio delle istanze dei curdi siriani al punto di intralciare l’intesa diplomatica predisposta dal Cremlino.
L’esclusione del PYD e la collaborazione dei suoi avversari potrebbero essere interpretati come primi segnali della vittoria della strategia turca in Siria. Tuttavia lo PYD è ormai un’entità consolidata e lo YPG si è dimostrata tra le forze combattenti sul campo più efficaci contro lo Stato Islamico. Con una coesione interna rafforzata dalle recenti vittorie, il PYD è, a prescindere dai colloqui di Astana, un attore fondamentale nel contesto siriano e nella lotta al terrorismo. Nonostante un gruppo minore di opposizione nel Concilio Siriano partecipi ad Astana, l’esclusione del PYD da questo contesto diplomatico, nonostante serva a compiacere Erdogan, non potrà che danneggiare qualsiasi esecuzione materiale di futuri accordi di pace.