Con nostro grande piacere vi proponiamo oggi un’intervista al Gen. Marco Bertolini, il quale ci ha risposto in merito al ruolo italiano nel bacino del mediterraneo, con uno sguardo rivolto anche alla nostra situazione interna.
Geopoliticalcenter (GPC): Sig. Generale, alla fine la missione italiana in acque libiche è stata derubricata alla formale presenza nel porto di Tripoli di due unità minori, che saranno nei fatti a disposizione dell’autorità libica facente riferimento ad Al Serraj. Questa attività può essere in qualche modo utile a rafforzare la posizione Italiana in Libia? Oppure dispiegando una forza con minima capacità operativa rischiamo solamente di aizzare parte della popolazione di Tripoli (parliamo degli islamisti filoturchi in particolare) senza che i nostri “alleati” (le milizie di Misurata) abbiano la capacità di dimostrare che l’Italia è pronta a sostenerli fino in fondo?
Generale Marco Bertolini (Gen.Bertolini): La presenza di Nave Tremiti nel porto di Tripoli ha essenzialmente una funzione di carattere logistico. Si tratta, infatti, di una nave utilizzata per interventi tecnici e per piccole attività di trasporto “costiero”, assolutamente non idonea per attività che richiedano velocità operative significative in condizioni di mare agitato. Il suo compito consiste nello svolgimento di “lavori” a favore della Marina libica, ad integrazione di quanto già fatto in passato sotto forma di addestramento alla Guardia Costiera. I meccanici di Nave Tremiti, per ora, stanno operando a bordo di naviglio libico per ripristinarne il funzionamento e l’operatività. Insomma, non sostituisce Nave Borsini, che è invece un veloce pattugliatore della Classe Comandanti inviato nelle acque territoriali libiche subito dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio Gentiloni e ora rientrato. In merito all’utilità di questo impiego, non c’è dubbio che si tratta di un’attività abbastanza importante per rafforzare il rapporto tra Italia e Libia, intervenendo in un settore per di più cruciale per una delle crisi più importanti che ci troviamo ad affrontare, quella della migrazione incontrollata da quel paese. Inoltre, Nave Tremiti esercita una funzione diplomatica – tipica delle marine militari – manifestando presenza in un’area delicata. Ovviamente, stante la divisione tra due governi contrapposti in Libia, si deve tenere conto delle diverse sensibilità che possono essere innescate da una presenza militare straniera nel paese. Detto questo, non credo che possa essere la presenza di una piccola unità navale italiana, già impiegata per compiti analoghi in passato, a innescare preoccupazioni da parte degli oppositori del governo di Tripoli. Inoltre, gli interventi manutentivi in corso saranno comunque utili anche al governo libico che prima o poi succederà all’attuale di Al Serraj o che con lui si integrerà, cosa che il “pretendente al trono” Haftar sa benissimo. Diverso sarebbe stato con una presenza navale operativa che avrebbe implicato, da parte libica, una cessione di sovranità che un paese sano non può accettare. Ma non pare questo ciò che sta accadendo.
GPC: Oggi è evidente che non si può ignorare un uomo come il Generale Haftar (ed i paesi che lo sostengono, Egitto e Russia in primis), fatto da lei già evidenziato in un’altra intervista dello scorso anno al nostro sito. Quale via è possibile per avvicinarci anche ad Haftar? Forse quella che passa dal Cairo sarebbe la migliore?
Gen. Bertolini: E’ una situazione complessa che richiede molta attenzione da parte nostra e soprattutto l’individuazione di una strategia nazionale che fatichiamo a definire, a quanto pare. A ben vedere, infatti, pare che la Libia ci interessi solo per quel che riguarda il problema della migrazione incontrollata verso di noi, mentre dobbiamo renderci conto che i nostri problemi non finirebbero con l’auspicabile fine di questa, se continuassimo ad avere un “vicino” instabile e a rischio costante di implosione. Chi si è assunto la responsabilità di questa situazione ha dimostrato coi fatti che i nostri indotti complessi di inferiorità etica nei confronti dei “paesi normali”, come li chiama qualche cretino, non hanno senso.
In ogni caso, dobbiamo prima di tutto farci una ragione del fatto che la leadership della Libia se la sceglieranno i libici, auspicabilmente col voto o, speriamo di no, con le armi e noi dovremo avere a che fare con chiunque al termine di questa convulsa fase di passaggio avrà il “mazzo in mano”.
Attualmente, escludendo tra le altre le tribù Tuareg e Tebù nel Fezzan e Zintan in Tripolitania che comunque hanno un ruolo marginale nella spartizione del potere, gli interlocutori principali sono Al Serraj, Primo Ministro supportato dall’ONU e il Gen.Haftar che fa capo al parlamento di Tobruk. C’è poi il terzo incomodo di Misurata, città molto vicina ai Fratelli Musulmani e nemica di Haftar, nonché alleata di Al Serraj anche se alcune delle sue milizie più “hard liner” si prendono frequentemente a fucilate con le milizie “alleate” tripoline. Ultimamente, Misurata evidenzia anche una marcata volontà di distinguersi da Tripoli, come nel caso di recenti contatti autonomi col Qatar che hanno fatto inalberare il “Primo Ministro”.
Al riguardo, c’è da osservare che per ora ci troviamo in una situazione di sbilanciamento dovuta alla nostra presenza essenzialmente a Tripoli, con l’Ambasciata, ed a Misurata, con un Ospedale da Campo che potrebbero dare l’impressione di una nostra scelta di campo ostile ad Haftar. Quest’ultimo, oltre alla mezzaluna petrolifera e ad alcuni dei porti nella Sirte, controlla ora anche parte del Fezzan dall’Oasi di Al Jufra dalla quale potrebbe costituire minaccia per le forze misuratine e tripoline sulla costa. Da qui, inoltre, si garantisce la possibilità di controllare molte rotte che dai confini meridionali, controllati formalmente da Tripoli, portano i migranti/profughi/clandestini alle coste della Libia per poi traghettarli in Italia. Gode inoltre del supporto del Cairo e della Russia che lo ha solennemente incoronato quale suo referente libico. E come vediamo in Siria, la Russia non è un dettaglio nel Mediterraneo che si sta delineando.
Ma è anche vero che Haftar trova una forte ostilità da parte di Misurata che è a sua volta un interlocutore imprescindibile, in quanto titolare di un potere militare comunque importante e potendo a buon diritto rivendicare il merito di avere estirpato Daesh da Sirte, con forti perdite.
Ogni azione deve essere pertanto calibrata con grande attenzione, cercando di fare tesoro del fatto che siamo stati i primi, tra i paesi “importanti”, a riaprire la nostra Ambasciata che però deve essere in grado di interloquire con tutti gli aventi causa. Non aiuta certo da questo punto di vista la dichiarazione del nostro Ambasciatore “persona non grata” da parte della Commissione Difesa di Tobruk né il divieto alle compagnie italiane di avviare attività in Cirenaica da parte del Ministro dell’economia Asar. Ma spero, e credo, che esista comunque un canale di comunicazioni con Haftar, almeno a livello informale e riservato, e sono convinto che lo si possa convincere dell’assenza da parte dell’Italia di velleità di intromissione nella sovranità libica che certamente non può accettare. A questo fine, sicuramente, un rapporto più disteso con la Russia in ordine alla sua politica militare nel Mediterraneo aiuterebbe molto, e anche Il Cairo potrebbe contribuire a rinsaldare i rapporti con lui, senza per questo “tagliare” con Serraj. Registro per questo con grande sollievo la volontà di normalizzare le relazioni diplomatiche con l’Egitto da parte del nostro governo, dopo un lungo periodo di “gelo” che ci ha esposto ad una pericolosa esclusione dalla conoscenza di quello che accade nell’area più delicata della nostra regione. Inoltre, ci ha inibito parecchie possibilità di relazionarci con le istituzioni della Cirenaica, che sta evidenziando una indipendenza dal governo di Tripoli che non può essere ignorata e che potrebbe portare ad ulteriori evoluzioni. Per un paese mediterraneo, anzi per il paese mediterraneo per eccellenza che è il nostro, un rapporto solido e disteso con i paesi rivieraschi è indispensabile. Ed è indispensabile soprattutto con l’Egitto – il paese arabo più popoloso – che sta fronteggiando i colpi di coda dello Stato Islamico nel Sinai, cercando nel contempo di fronteggiare una sanguinosa opposizione da parte delle frange salafite più estreme nella Capitale. Non a caso si ripetono frequentemente attacchi ed attentati contro le comunità cristiane copte egiziane, cosa che non è semplicisticamente da imputare ad intolleranza religiosa, ma che è più prosaicamente finalizzata all’obiettivo “politico” di inimicargli le cancellerie occidentali e a fiaccarne le risorse turistiche.
GPC: Nello scorso febbraio, ad una conferenza internazionale a Roma, i leader di Misurata avevano affermato che non avrebbero mai autorizzato una presenza militare italiana in Libia. Noi chiedemmo ai vertici di Misurata (non possiamo fare nomi, la conferenza era sotto le regole di Chatham House) come sarebbe stato l’atteggiamento libico se per ogni soldato combattente italiano in Libia, avessimo inviato un tecnico o un medico o un ingegnere. La risposta fu: ”sareste i benvenuti”. Poco dopo iniziò l’operazione Ippocrate, che però nella nostra idea avrebbe dovuto svolgersi non solo a Misurata ma anche a Tripoli e Tobruk e a Bengasi. L’idea era quella di replicare la nostra azione in Libano degli anni 80. Esiste ancora spazio per una simile operazione nella Libia orientale?
Gen. Bertolini: L’operazione Ippocrate è certamente importante, ma sbaglieremmo se pensassimo alle città del nord della Libia come alla Beirut degli anni ’80. Sia a Tripoli che Misurata esistono infatti ospedali efficienti e sanitari professionali, mentre più critica è probabilmente la situazione a Bengasi, per il protrarsi degli scontri tra salafiti e forze di Haftar. Per questo, nonché per favorire i nostri rapporti con tutte le parti, la presenza a Misurata – “capitale” dei Fratelli Musulmani “moderati” – dovrebbe essere bilanciata da una analoga presenza a Tripoli e a Bengasi, anche in previsione di una possibile offensiva di Haftar a Derna, per dimostrare la nostra imparzialità. Ma si tratta di un impegno gravoso sotto il profilo finanziario che non credo l’Italia possa sostenere. In alternativa, si dovrebbe cercare di diversificare il nostro impegno, con attività di supporto tecnico, logistico e addestrativo militare a favore di Tripoli e di Haftar stesso, auspicabilmente anche per il controllo dei confini orientali e meridionali del paese, mettendo a disposizione le esperienze che abbiamo maturato in Afghanistan. Ripeto, penso che un supporto del genere, che ovviamente implicherebbe qualche rischio in più rispetto ad un semplice ospedale da campo in una città tranquilla come Misurata, potrebbe essere importante per noi e per la Libia.
GPC: Nella Casa Bianca di Trump tre generali hanno ruoli determinanti nell’amministrazione, parliamo di McMaster, Mattis e Kelly. Come mai nel nostro paese non esistono, fatta eccezione per l’Ammiraglio Di Paola (che comunque era inserito in un governo tecnico), generali o alti ufficiali che dopo il congedo abbiano avuto spazio nel governo del paese o in politica?
Gen. Bertolini: Le ragioni sono di carattere culturale e politico e si inquadrano nel nostro specifico percorso storico caratterizzato dalla sconfitta della seconda guerra mondiale. Peraltro, è un fatto che oltre all’Amm.Di Paola ci sono stati altri militari in posizioni di governo, come il Gen.Corcione, Ministro della Difesa nel ’95-’96 e il Gen.Rossi, attualmente sottosegretario della Difesa. Ma eluderei la domanda se mi limitassi a questa osservazione. Diciamo che il militare ispira antipatia in una parte molto rumorosa della nostra opinione pubblica e sovra-rappresentata a livello politico, anche se fortunatamente assolutamente minoritaria nel paese. Questa antipatia l’ho sperimentata di persona, frequentemente, quale Ufficiale della Folgore, certamente l’unità più operativa del nostro Esercito ma sempre richiesta da questi quattro gatti di dimostrare di non essere un corpo estraneo, da controllare. Purtroppo, è anche storia di questi ultimi mesi. Chi persevera in questo atteggiamento, semplicemente, non vuole riconoscere che i militari sono la rappresentazione più solenne dello Stato e della Nazione. Non a caso, quando dopo il 2 giugno del 1946 la gracilissima repubblica italiana sentì il bisogno di affermare la propria solidità, lo fece con una parata militare ai Fori Imperiali, non con la sfilata dei sindaci o degli operatori del “servizio civile” alla quale siamo stati costretti ultimamente, con poche armi, pochi cavalli e, mi raccomando!, senza carri armati. Diversa è la situazione negli USA ma anche, molto più vicini a noi, in Francia e in Gran Bretagna, dove sono spesso i militari ad avere l’ultima parola nelle scelte che riguardano la sicurezza nazionale e le scelte strategiche stesse.
GPC: Sig. Generale, se lei potesse attuare una riforma del nostro stato schioccando le dita, quale metterebbe in atto?
Gen. Bertolini: Io credo che se, per assurda ipotesi, esistesse la possibilità di risolvere un problema con un semplice schiocco di dita, con un colpo di bacchetta magica, dovremmo scegliere quello del nostro calo demografico. So di essere politicamente scorretto, ma ritengo che un paese che non ha la forza e il coraggio di dire ai giovani “fate figli” si condanna alla morte, a prescindere dall’entità del flusso migratorio che lo investe. Ma per far questo è necessario impostare una politica familiare di segno assolutamente contrario all’attuale, riconoscendo e proclamando apertamente il valore sociale e strategico delle famiglie, a partire da quelle numerose che devono godere di agevolazioni significative; e lo dobbiamo fare alla svelta. E’ ovvio che un provvedimento del genere dovrebbe essere integrato da interventi volti all’educazione scolastica ed all’educazione in senso lato (in questo la leva obbligatoria era una risorsa importante), in modo che l’assurda enfasi sui “diritti” che ci sta sgretolando lasci il posto a quella sui doveri, su quanto dobbiamo alla nostra comunità nazionale. Tra questi, il primo è quello di non favorire “diserzioni”, di tenere le nostre migliori risorse per noi e per le generazioni che seguiranno, senza incoraggiarle – come a volte sembra si faccia – a “cercare fortuna altrove”. E dobbiamo chiedergli, se non è possibile spingerli a tale scelta sulla base della convenienza, di farlo per senso di responsabilità; ecco, appunto, dove entrano in campo i doveri. In fin dei conti, se anche il presente ci fa tanta paura, a fronte della marea migratoria, degli attentati che si ripetono nelle città europee e delle crisi che nascono nel nostro mare, non è forse perché percepiamo la nostra debolezza di anzianotti con la pancetta, la nostra mancanza di giovanile e virile baldanza con la quale farci un baffo di chi ci minaccia?