Milano, 15 mar. – Un elegante appartamento di un bell’edificio storico sul Su Zhou River, il ‘secondo’ fiume di Shanghai.
Un delizioso e lussureggiante brunch offerto da una mia vecchia amica.
In questo ambiente, ieri, ho avuto la fortuna di incontrare o di re-incontrare molti espatriati italiani in Cina.
Alcuni dei più giovani lavorano in aziende di successo, ma non italiane.
Molti dei meno giovani gestiscono le poche grandi aziende italiane significativamente presenti in Cina.
Molti li conosco da ‘una vita’. Infatti molti di loro hanno dedicato almeno un quarto di secolo alla Cina e alle aziende italiane in Cina.
Molti sono stati capaci di sviluppare bene le aziende loro affidate nonostante le innumerevoli carenze dei loro quartier generali e dell’intero Paese.
Nelle loro menti e nel loro comportamento si è accumulato tutto il know-how italiano per operare in Cina. Si tratta – nella mia personale valutazione – di un importantissimo know-how che nulla ha da invidiare al know-how accumulato dagli espatriati di altre nazioni occidentali che competono con noi sul mercato cinese.
Ma questo know-how è di gran lunga superiore all’effettiva penetrazione dell’Italia in Cina.
Per capire questa distonia bastava ascoltare alcuni dei loro discorsi ieri o quelli che ci siamo sempre fatti negli ultimi venticinque anni. Alle loro spalle spesso c’è un’azienda che crede poco nella Cina, che non fa alcuno sforzo per capire un mondo così diverso, che continua a essere presente in Cina perché capisce che non può ignorarla, ma allo stesso tempo non vuole credere che bisogna cambiare molto, molto e ancora molto per essere di successo in Cina. E che occorre cambiare anche nel quartier generale in Italia!
E alle spalle di queste aziende, peraltro poche perché la maggioranza delle altre si accontenta di un po’ di esportazioni verso la Cina, non c’è il Paese, il ‘sistema Paese’ come si usa dire.
L’Italia non ha mai avuto una strategia unitaria e chiara per la Cina. Si è sempre barcamenata con azioni di corto periodo per permettere al Governo di turno di far vedere che qualche cosa si stava facendo. Mai ha avuto una visione di lungo periodo su quale ruolo avremmo voluto giocare su questo importante scacchiere. Mai ha avuto programmi di azioni di lungo periodo per affermarsi su questo mercato.
Questo significa anche che non solo abbiamo sprecato il patrimonio di conoscenza e di competenze accumulato dai nostri espatriati in Cina, ma anche quello della diplomazia. Negli anni abbiamo, infatti, mediamente schierato ambasciatori e funzionari competenti e volenterosi, ma che sono stati costretti a gestire l’emergenza e l’immediato. Mai chiamati a concorrere a un disegno di lungo termine. Semplicemente perché il disegno non c’era.
Questo sentivo dire ieri a questo brunch.
Questo penso oggi e ho sempre pensato negli ultimi trent’anni.
Ma ieri ho toccato con mano il patrimonio che abbiamo accumulato e che abbiamo per larga parte sprecato. Ricordando il capitale di immagine e le effettive competenze che l’Italia aveva quando – seconda nazione europea e prima degli Stati Uniti – ha riaperto le relazioni diplomatiche con la Cina dopo il Maoismo e la Rivoluzione Culturale e immaginando quello che avremmo potuto fare come aziende e come Paese, mi viene una tremenda malinconia guardando invece il poco (anche se spesso buono) che siamo stati capaci di fare.
Quale spreco. Che peccato. Che tristezza.
Il nuovo Governo sta – per fortuna e per la prima volta – dando segnali diversi. Speriamo che queste rondini facciano primavera.