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Il Governo Italiano si prepara ad una “operazione di polizia” in acque libiche

Libia

Il governo guidato dal Primo Ministro Renzi starebbe pianificando una operazione di “Polizia”, da svolgersi all’interno delle acque libiche, atta a bloccare i barconi di clandestini diretti in Italia e riportarli sulla costa libica.
La decisione sarebbe stata presa in un vertice operativo che si è tenuto ieri sera a Palazzo Chigi, con i ministri degli Esteri, Difesa, Interni, il sottosegretario Marco Minniti (con delega ai Servizi), i vertici dei Servizi Informativi per la Sicurezza della Repubblica, e i Capi di Stato Maggiore di Marina ed Esercito.
Il piano prevedrebbe, diciamo prevedrebbe perché la nostra è una analisi che deriva da una raccolta di informazioni eseguita dal nostro gruppo, un pattugliamento entro le 12 miglia delle acque territoriali libiche da parte di Unità militari italiane aventi il compito di fermare i barconi di clandestini prima che raggiungano le acque internazionali, ove sarebbe quasi impossibile riportali, in accordo con la normativa Internazionale, in Libia.
Questa operazione mira a stroncare il traffico di esseri umani che arricchisce terroristi e nuovi schiavisti in Nord Africa e nell’Africa subsahariana. Dal vertice operativo sarebbe emersa la volontà di non impiegare forze armate italiane sul suolo libico. Questa operazione a nostro avviso possiede al proprio interno più criticità che punti positivi.
Cerchiamo di spiegarvi perché e come mai, a nostro avviso, senza una presenza fisica militare internazionale sul suolo libico, questa operazione è destinata a fallire. È indubbio che con una operazione di questo tipo il rischio di vittime italiane in Libia è basso (basso non zero), ma questo è l’unico aspetto positivo di tale operazione. Prima di tutto peró parliamo degli aspetti logistici.
È possibile, ma molto complesso e dispendioso, mantenere unità di piccolo tonnellaggio a così grande distanza dalle basi operative poste su territorio italiano (o al limite maltese) per lungo tempo. Sarebbe logorante per gli equipaggi e per i mezzi restare giorni in zona operazioni senza poter tornare a terra. Durante l’estate il clima favorirà gli equipaggi, che comunque dovranno fare i conti con le alte temperature dell’estate Nord africana, ma all’arrivo dell’inverno le tempeste obbligheranno i mezzi a numerosi rientri nei porti di Malta, di Lampedusa o della Sicilia.
L’aspetto logistico, tuttavia, è gestibile e risolvibile.
Una problematica più complessa sarà come fermare i barconi. Oggi gli scafisti e i migranti accettano il soccorso senza alcun problema, in quanto hanno coscienza di aver raggiunto il loro obiettivo (raggiungere l’Italia).
Cosa accadrà però domani quando scafisti e clandestini sapranno che essere fermati dalle unità italiane significa essere ricondotti in Libia? La risposta l’abbiamo osservando cosa accadde in Albania durante l’esodo degli anni 90, dove l’Italia decise, ed in un ambiente molto più favorevole, di mettere in atto la medesima operazione che oggi si pensa per la Libia.
Ora come allora, nei primi giorni sarà possibile, seppur molto complesso, per l’atteggiamento oppositivo degli stessi migranti, fermare i barconi. Dopo alcune settimane, l’esasperazione di chi vuole a tutti i costi raggiungere l’Italia, ed i mancati ricavi dei mercanti di uomini spingerà alcune unità a forzare il blocco navale.
A quel punto quindi cosa prevederanno le regole di ingaggio? Lasciare passare il barcone, e decretare la fine dell’operazione, oppure cercare di ostacolare fisicamente, con unità più grandi, i barconi diretti a nord? Qualche volta la prova di forza funzionerà senza grandi problemi, altre volte si potrebbe verificare l’affondamento del natante che trasporta i clandestini (cosa accaduta più volte di fronte all’Albania), l’opinione pubblica e il governo sono pronti a questa ipotesi? Un’altra problematica è che le nostre unità saranno esposte ad attentati ed azioni di guerriglia (e forse anche al tiro di armi antinave portatili), sia a distanza dalle coste, sia e soprattutto nel momento in cui “riaccompagneranno” barcone scafisti e clandestini a riva.
In quei momenti, nei porti o a poche centinaia di metri dalla costa, le nostre unità potrebbero essere oggetto di vere e proprie imboscate che potrebbero costare molto care ai nostri operatori.
Poi una considerazione di tipo “strategico”: come ci comporteremo con chi controlla Tripoli e Misurata? Li riconosceremo come interlocutori legittimi? Come possiamo immaginare di ottenere appoggio ed aiuto da entrambe le fazioni che lottano per il controllo della Libia? Ognuno ci chiederà qualcosa in cambio della propria collaborazione e questo fatto ci farà vedere come inaffidabili da entrambe le parti. Una “operazione di polizia” che fermi l’unica fonte di reddito per molti libici (e cioè il traffico di esseri umani) senza che venga data a tutta la popolazione della Libia, non tanto una speranza di sviluppo, quanto un concreto, fattivo e tangibile miglioramento delle loro condizioni di vita, dell’assistenza sanitaria e dell’educazione, ci farà identificare come il NEMICO.
Un’operazione di “polizia” entro le dodici miglia è l’opzione meno impegnativa oggi, ma quella che, a nostro avviso, porterà più rischi a medio e lungo termine. La percezione del nostro paese da parte dei libici sarà quindi negativa, e nel caso in cui decidessimo di rispondere ad una delle possibili future imboscate ai danni di nostre unità ad esempio con il dispiegamento di truppe a terra, anche in piccole aree strategiche, sarebbe molto difficile, se non quasi impossibile, farci accettare come coloro che intervengono in Libia ANCHE per il bene del popolo libico.
Noi riteniamo, che seppur più complessa, faticosa, dispendiosa e difficile da accettare, sia più utile una missione nella quale il nostro paese impieghi truppe di terra in Libia. Una missione dove venga dispiegata tutta la nostra potenza militare e tutta la nostra potenza umanitaria, con gli ospedali da campo al servizio del popolo di Libia con a fianco i carri armati per rendere chiaro a quella piccola minoranza guerrafondaia che vive oggi in Libia, che l’Italia è tornata in Nord Africa non per imporre una nuova colonia, non per sfruttare il popolo libico ma per consentirgli di sviluppare l’intero paese, curare i bambini che ancor oggi muoiono di polmonite e diarrea, regalare una istruzione a ogni abitante di Tripoli, Tobruk e Bengasi, e fare della Libia un partner di sviluppo economico, commerciale militare ed energetico.
Serve un grande piano Marshall per la Libia, protetto dai fucili dei nostri soldati e animato dalla volontà dei nostri volontari umanitari e con le risorse finanziarie di tutta l’Europa e dei ricchi paesi del Golfo, senza dimenticare Russia e Stati Uniti che potrebbero trovarsi uniti per finanziare la nuova Libia. Questo serve a noi e alla Libia! Non un blocco navale chiamato “operazione di polizia”.
Abbiamo la potenzialità per fare il bene nostro e della Libia, ma dobbiamo agire uniti, non divisi in fazioni, pacifisti contro militaristi. Servono tutte le anime dell’Italia. Servono i militari e le armi, e servono i volontari, le ONG e i pacifisti. Tutti noi siamo necessari alla Libia e all’Italia, mettiamo da parte il tifo per la nostra fazione preferita, smettiamo di giocare uno contro l’altro. Serve unità, ora, adesso. Questo governo, per il momento particolare vissuto dal paese, ha a disposizione una occasione unica: muovere tutta l’Italia in una sola direzione.
I volontari ed operatori delle organizzazioni umanitarie e i militari si difenderanno a vicenda, i primi facendo vedere ai libici la generosità italiana, i secondi dimostrando ai nemici della pace che essi non potranno torcere un solo capello ai nostri volontari e ai libici che vogliono il loro paese a fianco dell’Italia per migliorare la loro vita.