Il caso australiano: cosa accade quando un paese democratico alza la testa ed affronta il partito comunista cinese.
Un caso di studio
Se avete seguito le notizie internazionali negli ultimi mesi non vi saranno sfuggiti quelli che possono sembrare a prima vista dei semplici screzi tra il governo australiano e quello cinese; in realtà si tratta di un vero e proprio scontro senza esclusione di colpi che si ferma appena sotto la barra del conflitto militare.
Desideriamo offrirvi un resoconto di ciò che sta accadendo tra Cina ed Australia perché si tratta del primo vero conflitto tra un paese occidentale e democratico ed il regime cinese diretto da Xi Jinping; ciò che il governo ed i cittadini australiani stanno vivendo in questi anni difficili potrebbe diventare il copione seguito da Pechino per intimidire e piegare alla propria volontà altri paesi occidentali “non ottemperanti”. È bene osservare ed apprendere.
Uno dei primi campanelli di allarme che hanno risvegliato bruscamente gli australiani ha suonato nel 2016 quando i media australiani scoprirono e denunciarono cospicui finanziamenti cinesi (più di 5 milioni di dollari) a partiti di maggioranza e d’opposizione, ed addirittura che senatori come Sam Dastyari, laburista, si facevano pagare le fatture di viaggi ed impegni istituzionali da finanziatori cinesi fortemente connessi al partito comunista cinese.
Improvvisamente gli australiani hanno cominciato a rendersi conto che il regime cinese aveva molta, forse troppa, influenza nella politica australiana.
Da questi eventi è nato un dibattito pubblico veemente, culminato nell’approvazione, nel 2018, di rigorose leggi contro le influenze straniere nella politica domestica australiana.
Il procuratore generale Christian Porter definì la riforma come la più grande revisione degli ultimi decenni delle norme sul controspionaggio e la lotta alle influenze straniere.
Le nuove norme sono state approvate dal parlamento australiano pochi giorni prima delle elezioni suppletive del luglio 2018, prestando attenzione agli avvertimenti di Porter che denunciava un’intensa attività di agenti stranieri intenzionati a seminare il caos e manipolare l’opinione pubblica ed i rappresentanti eletti dal popolo.
Il regime cinese, già il giorno dopo la presentazione al pubblico dei disegni di legge (che verranno approvati 7 mesi dopo) da parte del primo ministro Turnbull, accusava il governo australiano di essere irresponsabile e di danneggiare la fiducia esistente tra i due paesi.
Ma, e questo è un punto importante da sottolineare, le accuse venivano rivolte al governo australiano non tanto per i progetti di riforma presentati, ma per la copertura offerta dai media australiani degli scandali di cui abbiamo parlato poco fa: i giornali australiani infatti non hanno esitato a dipingere la Cina come una minaccia, accusando il regime di cercare di influenzare i politici attraverso donazioni ed esercitare pressioni sugli studenti cinesi (numerosissimi) che studiano nelle università australiane.
Il governo cinese ovviamente non ha perso l’occasione per accusare i politici ed i media australiani anche di xenofobia e razzismo anti-cinese ed anti-asiatico; si tratta di una delle tecniche da manuale utilizzate dal regime cinese per respingere ogni accusa e spostare l’attenzione sulle vittime, demonizzandole, in un ambiente internazionale tossico ed ormai molto sensibile al problema (reale o fittizio che sia) del razzismo.
Come dicevamo prima si tratta di un elemento molto importante da capire perché nella visione totalitaria cinese il governo di un paese è responsabile di quanto viene espresso dai media di quel paese.
Cose come la libertà di espressione e di stampa, cardini fondamentali di uno Stato di diritto democratico, semplicemente non esistono nella logica cinese.
Una delle prime reazioni al dibattito pubblico “anti-cinese” ed alla presentazione di tali riforme è avvenuta sotto forma di cancellazione di visti di viaggio di leader dell’imprenditoria che dovevano partecipare a meeting ed eventi in Cina.
Oggi sappiamo che la presa di coscienza australiana di quegli anni ha in effetti provocato degli effetti benefici immediati: a gennaio di quest’anno l’amministrazione Trump ha declassificato un rapporto del 2018 che descrive la nuova strategia americana nella regione indo-pacifica per contrastare il potere e l’influenza cinese.
Alcuni ufficiali americani hanno affermato che l’esperienza australiana ha fortemente influenzato la redazione del rapporto in quanto gli australiani sono stati i primi a comprendere le campagne di influenza e le operazioni di interferenza cinesi negli affari domestici.
A metà del 2018 il governo australiano è il primo al mondo a vietare l’utilizzo di tecnologia Huawei e ZTE (due ben noti colossi cinesi delle telecomunicazioni) per la costruzione della rete 5G in quanto potenzialmente pericolosa per la sicurezza nazionale.
Anche in questo caso il regime ha risposto accusando il governo di Canberra di “pregiudizi ideologici” e di voler impedire alle imprese cinesi di operare in un ambiente di leale competitività.
È interessante mettere in evidenza, prendendo spunto da questo episodio, come il regime cinese spesso accusi gli altri di ciò che esso stesso fa: ormai buona parte dei paesi del mondo sono consci e cercano soluzioni al problema delle pratiche commerciali scorrette cinesi (compresi gli enormi finanziamenti di stato che le imprese cinesi ricevono), che alterano il mercato e distruggono la concorrenza. Eppure il regime non ha esitato ad etichettare le comprensibili preoccupazioni del governo australiano per la propria sicurezza nazionale come pratiche commerciali scorrette “anti-cinesi”.
Sempre nel 2018, a conferma dei timori di ingerenza cinese negli affari interni australiani, la commissione nazionale cinese per lo sviluppo e la riforma, sfruttando la decentralizzazione comune in molte democrazie, firma un memorandum con il governo dello stato di Victoria (governato dall’opposizione) perché partecipi alla Belt and Road Initiative cinese, bypassando completamente il governo federale.
Veniamo ora al 2020, anno in cui il conflitto in essere si è inasprito considerevolmente.
Come tutti sappiamo il 2020 è stato segnato da una pandemia che ha recato danni catastrofici al mondo intero (o quasi), reclamando le vite e la salute di milioni di persone e provocando un netto peggioramento della già fragile situazione economica globale.
In questo contesto ad aprile 2020 il primo ministro australiano Scott Morrison chiede a gran voce una completa revisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e la formazione di un team di investigatori (in una funzione simile a quella di esperti di armamenti che verificano i programmi di disarmo di un paese) che si rechi dove necessario ed indaghi sulle cause della pandemia.
Allo stesso tempo il governo australiano chiede con fermezza alla Cina una più ampia trasparenza sulle origini del virus.
Nel corso del 2020 Canberra condannerà a più riprese anche le nuove leggi sulla sicurezza imposte dal regime ad Hong Kong (il governo australiano deciderà anche di offrire la residenza permanente a migliaia di hongkonghesi e di sospendere l’accordo di estradizione con la città), la violazione dei diritti umani nello Xinjiang e le minacce cinesi alla libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale.
Il regime risponde immediatamente alla richiesta di un’inchiesta internazionale: le parole dei funzionari australiani vengono definite pietose, il governo viene accusato di ignoranza e bigotteria. I media statali cinesi addirittura definiscono l’Australia come una gomma da masticare appiccicata alla suola della scarpa cinese, un paese irrilevante che fa il lavoro sporco degli Usa e che rischia di danneggiare le proprie relazioni con la Cina ben oltre il punto di non ritorno.
Una reazione diplomatica rabbiosa ed inaudita, ma che sarà solo l’inizio di una durissima rappresaglia soprattutto economica.
È importante sottolineare che la Cina è il più grande partner commerciale dell’Australia, destinazione del 30% dell’export del paese per un valore di 104 miliardi di dollari nel 2019.
La prima vittima della reazione cinese è l’orzo.
A maggio le autorità cinesi, sulla scia di lamentele nate nel 2018 relative ad una presunta concorrenza sleale, impongono nuove tariffe doganali per un totale dell’80,5% e per la durata di 5
anni sull’orzo australiano, rendendo economicamente insostenibile la sua importazione (se non per alcune spedizioni nelle zone economiche speciali cinesi che durano ancora qualche mese). La Cina costituiva, fino a quel momento, l’acquirente di ben più della metà dell’orzo coltivato in Australia, un commercio del valore di 1,5 miliardi di dollari nel 2018.
La decisione è arrivata come un fulmine a ciel sereno perché le accuse di dumping sembravano essere state placate, con le autorità australiane sicure di aver risposto efficacemente a tutte le perplessità cinesi.
Il 2020 doveva essere peraltro l’anno della riscossa per molti agricoltori australiani che, a causa di una prolungata siccità, non avevano avuto raccolti redditizi negli ultimi 4 anni.
Il governo australiano decide di appellare la decisione davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), dopo aver fatto lo stesso nelle sedi competenti cinesi ma senza successo. Ad agosto e poi all’inizio di novembre il regime sospende completamente gli scambi con due produttori di orzo, sostenendo di aver trovato semi di marijuana nelle spedizioni.
I produttori di orzo hanno dovuto rimboccarsi le maniche per trovare altri clienti e sopperire alla perdita del mercato cinese.
Solo due giorni dopo l’istituzione delle tariffe sull’orzo le autorità cinesi bloccano l’importazione di carne di manzo di 4 dei più grandi mattatoi australiani (che producono il 35% del manzo esportato in Cina), citando vaghe problematiche relative ad etichette e certificati sanitari. Ad agosto se ne aggiungerà un quinto, ed a dicembre un sesto, in quest’ultimo caso senza fornire alcuna spiegazione.
Altri due fermano volontariamente le spedizioni a giugno a causa di focolai scoppiati tra i dipendenti. Nonostante molti altri mattatoi nel mondo avessero avuto un’esperienza simile ed avessero poi ripreso regolarmente le esportazioni verso la Cina, i due mattatoi dello stato di Victoria restano inspiegabilmente bloccati.
L’Australia è uno dei maggiori esportatori di carne bovina in Cina, con carne venduta per un valore di 3 miliardi di dollari nel 2019.
In questo caso si è probabilmente trattato di “avvertimenti ed ammonizioni” da parte cinese, in quanto l’importazione di carne bovina è rimasta comunque molto alta nonostante lo stop a diversi mattatoi.
Veniamo ora al carbone, uno dei beni da esportazione più preziosi per l’economia australiana (64 miliardi di dollari all’anno di introiti).
Ancora una volta l’Australia è il principale fornitore della Cina, che acquista circa il 25% della produzione totale.
Già nel 2019 cominciava a configurarsi la volontà cinese di limitare l’importazione di carbone, sia metallurgico (utilizzato nella creazione dell’acciaio) che termico (bruciato per generare elettricità): l’ufficio doganale di Dalian, competente per le spedizioni verso 5 porti nel nord della Cina, uno dei centri nevralgici della produzione metallurgica, a febbraio 2019 blocca improvvisamente ed indefinitamente l’importazione di carbone metallurgico, stabilendo delle ridotte quote massime annuali. Le misure riguardano solo il carbone australiano, quello proveniente da Russia ed Indonesia non è interessato.
Il dollaro australiano crolla in seguito alla diffusione della notizia.
Prima che le spedizioni fossero definitivamente bloccate, i carichi di carbone australiano arrivati al porto di Dalian avevano visto tempi di attesa estremamente rallentati (passati da 10 a 40 giorni) già dall’inizio dell’anno, un segno premonitore.
In seguito a tale blocco simili ritardi cominciano ad apparire in altri porti cinesi, sia per il carbone metallurgico che per quello termico.
A marzo 2019 le restrizioni sul carbone termico iniziano ad essere applicate nel porto di Fangcheng, nel sud del paese, dove i doganieri conducono test per valutare la radioattività del carbone australiano, test che possono durare fino a 3 mesi.
Esperti della banca d’investimento Credit Suisse osservano che alcuni importatori stanno evitando di comprare carbone australiano a causa delle incertezze e dei lunghi tempi d’attesa alla dogana a cui viene sottoposto. Il prezzo del carbone australiano crolla, quello del carbone indonesiano, russo e mongolo cresce così come cresce la domanda.
Arriviamo a maggio 2020, quando le acciaierie e le centrali elettriche di proprietà dello stato cinese ricevono l’ordine (sempre ufficiosamente) di non acquistare più il carbone australiano.
Per mesi decine di navi cariche di carbone australiano rimangono inutilmente in attesa di fronte ai porti cinesi, senza alcuna spiegazione.
Un ban, ancora una volta non ufficiale, viene istituito ad ottobre.
Dati ufficiali invece mostrano come ad ottobre 2020 le importazioni di carbone si siano dimezzate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
A novembre per la prima volta viene fornita una spiegazione relativa alle ormai 60 navi bloccate fuori dai porti cinesi: il carbone australiano non rispetta gli standard di qualità per la protezione dell’ambiente.
All’inizio di dicembre i numeri non lasciano spazio a dubbi: le esportazioni sono crollate dell’82% nell’ultimo quadrimestre dell’anno. Il più grande porto australiano da cui parte il carbone, Newcastle, non ha più carichi diretti in Cina.
Il governo centrale rende l’embargo ufficiale a metà dicembre, in seguito ad un’incontro con i rappresentanti dei maggiori produttori di elettricità del paese: viene stabilito che è possibile importare carbone termico senza alcun limite da diversi paesi, ma non dall’Australia, come viene riportato dal giornale di stato Global Times: il regime ammette implicitamente di star punendo l’Australia.
È interessante notare come il ban del carbone australiano non sia stato e non sia tutt’ora indolore per la Cina: la ripresa economica esige grandi quantità di carbone e diverse industrie si sono trovate in difficoltà, costrette a rinunciare alle importazioni australiane; in ogni caso a novembre 2020 la Cina ha firmato un nuovo contratto con l’Indonesia per un valore di 1,5 miliardi di dollari ed aumentato le quote per far affluire più carbone anche da Russia e Mongolia.
Si tratta di una lezione importante: Pechino è disposta a sostenere perdite economiche per un periodo prolungato allo scopo di punire un paese che ha osato opporsi alla potenza cinese. Il regime è ben conscio di poter resistere più a lungo di qualunque avversario in un eventuale stallo economico che comporti embarghi e sanzioni.
Novembre 2020 è un mese cruciale che vede una nuova bordata di misure atte a mettere in ginocchio l’economia australiana.
Le autorità cinesi comunicano l’istituzione di “tasse doganali” de facto, variabili tra il 107 ed il 200%, su tutti i vini australiani, lamentando la concorrenza sleale dei produttori australiani che venderebbero il loro vino ad un prezzo al di sotto del costo di produzione.
Viene aperta un’indagine anti-dumping che non terminerà prima della fine del 2021. Nel frattempo tali tariffe, o depositi di sicurezze, come li chiamano le autorità cinesi, devono essere pagate.
Le tariffe peraltro arrivano in seguito ad un ban ufficioso (comunicato da ufficiali del ministero del commercio alle compagnie importatrici di vino in meeting riservati dove persino i telefoni erano vietati) entrato in vigore il 6 novembre e che aveva causato un crollo dell’80-90% delle autorizzazioni a passare la dogana, lasciando centinaia di container di vino bloccati nei porti cinesi.
Un colpo devastante ad un’industria che fattura 1,2 miliardi di dollari all’anno.
Tale ban non ha riguardato solo il vino ma anche molte altri prodotti, causando perdite nell’ordine dei miliardi di dollari. Ma andiamo più nel dettaglio.
Alla fine di ottobre sono arrivate le prime avvisaglie, quando Pechino blocca l’importazione di legname prodotto dallo stato del Queensland affermando di aver trovato un parassita nel legno.
Una settimana dopo l’entrata in vigore del ban la Cina sospende l’importazione di legname proveniente dallo stato di Victoria, e poi a cascata quello proveniente dalla Tasmania e dallo stato del South Australia ad inizio dicembre ed infine del New South Wales e del Western Australia a fine dicembre, sempre a causa di presunti parassiti.
Il governo australiano valuta di intraprendere nuove azioni davanti al WTO, pur riconoscendo che è molto difficile dimostrare l’esistenza di questo ban non ufficiale e delle pressioni del governo sulle industrie, che sono di fatto controllate dallo stato cinese.
Ad ottobre anche alle compagnie tessili cinesi viene ordinato di non comprare più cotone australiano, fermando completamente gli scambi commerciali.
Anche in questo caso i produttori hanno dovuto cercare nuovi clienti in mercati emergenti del sud- est asiatico per sopperire alle perdite di un commercio del valore di almeno 600 milioni di dollari all’anno.
A novembre alcune spedizioni di aragoste vive (della migliore qualità esistente al mondo) del valore di 2 milioni di dollari rimangono bloccate alle dogane di diversi aeroporti per giorni; le autorità cinesi lamentano una possibile contaminazione da metalli. Il rateo di aragoste australiane (non quelle provenienti da altri paesi) sottoposte a verifiche sale vertiginosamente arrivando in alcuni casi al 100% degli esemplari.
I ritardi indotti da questi controlli estremamente accurati costringono i produttori australiani a smettere di spedire aragoste in Cina, temendo la perdita del carico a causa delle lunghe attese: delle aragoste che venivano vendute abitualmente a 250 dollari in Cina sono state messe in vendita nei supermercati locali a 100 dollari nel migliore dei casi, a 20 nel peggiore.
Un’industria del valore di 700 milioni di dollari all’anno, che esporta in Cina la quasi totalità delle aragoste pescate ed era già stata indebolita dalla scarsa domanda a causa della pandemia, rischia di essere messa completamente al tappeto.
Anche le aragoste saranno poi oggetto del ban non ufficiale del 6 novembre.
Le imprevedibili azioni e reazioni del governo cinese hanno influenzato anche il commercio di beni non direttamente presi di mira dalla rappresaglia, come il grano.
I produttori australiani, nonostante il raccolto record, hanno evitato di proporre il proprio prodotto ad acquirenti cinesi, soprattutto dopo che le autorità doganali avevano minacciato di inasprire i controlli anche sul grano (cosa che finora non è avvenuta).
Vista la totale incertezza, gli agricoltori australiani preferiscono evitare completamente di inviare grano in Cina. Per lo stesso motivo anche le industrie alimentari cinesi, pur essendo amanti del grano bianco a basso contenuto di glutine australiano, virano sul grano bianco americano.
Il ban del 6 novembre riguarda anche il rame.
A dicembre 2019 le importazioni di rame australiano erano state di 110.000 tonnellate. A novembre 2020 assistiamo ad un crollo che le porta a 26.000 tonnellate, che diventano letteralmente zero tonnellate a dicembre 2020; neanche un oncia di rame australiano approda sulle coste cinesi.
Possiamo notare come le varie merci di scambio non abbiano ricevuto lo stesso trattamento, né siano state colpite con la stessa intensità: Pechino ha usato l’export australiano come banco di prova per sperimentare diverse misure di rappresaglia economica e valutarne l’efficacia.
Ci sono anche beni come la lana o il ferro, la risorsa più importante insieme al carbone per l’export di Canberra, che invece non sono stati toccati; questo mostra che il regime non ha ritenuto (almeno per ora) di poter fare a meno del ferro australiano, mentre ha potuto trovare fornitori alternativi per gli altri beni.
La rappresaglia cinese però non ha riguardato solo l’export di materiali grezzi.
A maggio 2020 il ministero della cultura e del turismo cinese pubblica un avviso di viaggio: si sconsiglia di visitare il paese in quanto i turisti cinesi ed asiatici potrebbero essere oggetto di attacchi razzisti a causa della pandemia e della retorica aggressiva del governo australiano. Anche nel campo del turismo Camberra è fortemente dipendente dalla Cina: nel 2019 1,2 milioni di turisti cinesi si sono recati in Australia, spendendo ben 12,4 miliardi di dollari. Il turismo cinese costituisce una fetta maggioritaria degli introiti del settore.
Uno dei principali motivi per i quali i turisti cinesi scelgono l’Australia, in base ad una ricerca effettuata nel 2019, è che il paese è percepito come un posto sicuro ed amichevole, piacevole da visitare. È evidente perché il regime ha giocato la carta del rischio di attacchi razzisti per scoraggiare le partenze: i turisti cinesi prestano grandissima attenzione alle percezioni del proprio governo nei rapporti tra paesi quando scelgono la destinazione delle proprie vacanze.
Sebbene il turismo sia stato comunque bloccato dalla pandemia, il danno d’immagine potrebbe perdurare e determinare le scelte dei turisti cinesi anche quando i viaggi internazionali riprenderanno.
Contemporaneamente anche il ministero dell’educazione consiglia alle famiglie dei ragazzi cinesi che studiano nelle università australiane di riconsiderare tale scelta a causa di “episodi di discriminazione” nei confronti di persone asiatiche, mettendo a rischio i considerevoli introiti delle università australiane provenienti dalle rette.
Almeno 7 università australiane rischierebbero la bancarotta se venissero a mancare le rette degli studenti internazionali (che sono, per la maggior parte, cinesi).
Nonostante le azioni piuttosto plateali e sconcertanti intraprese dal governo cinese, per quasi tutto il 2020 sia il governo australiano che quello cinese non hanno mai ufficialmente affermato che ci fosse un vero conflitto economico e politico in corso, cercando di minimizzare quanto accadeva ed arrivando a negare da ambo i lati che il governo cinese avesse interrotto le importazioni di certi beni obbligando le imprese a scegliere fornitori alternativi.
Questo cambia radicalmente a novembre quando l’ambasciata cinese a Camberra consegna ad alcuni giornali australiani una lista di 14 lamentele e motivi di scontento da parte cinese.
Pechino esprime in modo chiaro per la prima volta i motivi per i quali i rapporti con Canberra sono ai minimi termini. La lista include:
– Il ban sull’uso di apparecchiature Huawei nella rete 5G (i timori per la sicurezza nazionale sarebbero “infondati”);
– Le leggi approvate nel 2018 sulle influenze straniere (prenderebbero di mira la Cina senza motivo);
– L’appello ad un’indagine sulle origini del coronavirus (l’Australia avrebbe preso le parti degli americani in una campagna anti-cinese);
– Le affermazioni riguardo alla libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale;
– Le affermazioni relative agli Uiguri (sarebbero tutte menzogne);
– Le velate accuse di cyber-attacchi rivolte al regime cinese (non ci sarebbero prove);
– Le nuove leggi sulle relazioni estere che danno al governo australiano potere di veto sulle
decisioni dei governi locali (approvate in reazione al memorandum firmato dallo stato di Victoria
di cui abbiamo parlato precedentemente);
– Il finanziamento pubblico di think tank “anti-cinesi” come l’ASPI, Australian Strategic Policy
Institute (che manipolerebbero l’opinione pubblica contro la Cina).
Cedere su uno qualsiasi di questi punti significherebbe sottomissione alla volontà cinese e perdita della sovranità nazionale.
Per anni il rapporto tra Pechino e Camberra (e probabilmente con molti altri paesi) poteva essere riassunto in queste parole, “state in silenzio e prendete questi soldi”, afferma Peter Jennings, direttore esecutivo dell’ASPI.
Agli occhi del regime l’Australia è solo un’ottima fonte di materie prime utile per foraggiare la straordinaria crescita economica cinese, niente di più.
Secondo Pechino Camberra non ha il diritto di esprimere la propria visione ed opinione su importanti questioni di sicurezza domestica e regionale se queste contrastano con la visione e la strategia cinese.
Un portavoce del ministero degli affari esteri e del commercio, in seguito alla pubblicazione della suddetta lista, ha dovuto ribadire l’ovvio: “Siamo una società democratica liberale con media liberi ed una democrazia parlamentare nella quale gli eletti ed i media hanno il diritto di esprimere liberamente le loro opinioni”.
Ufficiali cinesi hanno aggiunto a quanto scritto nella lista che “la Cina è arrabbiata” e che “se fai diventare la Cina un nemico, la Cina sarà tua nemica.”
La situazione si è talmente degradata che i cinesi trattano le relazioni con l’Australia ad un basso livello diplomatico, “tira una brutta aria” usando le parole di ufficiali cinesi: le chiamate di ministri australiani ai loro pari cinesi non vengono accettate, e tale sarà la situazione finché l’Australia non farà marcia indietro.
Per tale motivo Jennings aggiunge che gli australiani farebbero bene ad abituarsi alla situazione attuale, le relazioni con la Cina funzioneranno così per molti anni a venire.
L’offensiva cinese ha coinvolto anche le organizzazioni internazionali presso le quali acquisisce sempre più influenza.
Pochi giorni fa il regime ha espresso pesanti accuse contro il governo australiano davanti al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite: Canberra è accusata di violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione per migranti irregolari e richiedenti asilo di cui viene richiesta l’immediata chiusura.
Come detto precedentemente, il regime accusa gli altri di ciò che esso stesso fa: vale sempre la pena ricordare che oltre un milione di musulmani appartenenti alla minoranza degli Uiguri sono incarcerati in campi di concentramento nella regione dello Xinjiang e sono sottoposti a pratiche costituenti genocidio secondo le definizioni ufficiali della Convenzione di Ginevra del 1948, come confermato recentemente da più di 50 esperti indipendenti.
La pressione sulla democrazia e sull’economia australiana è così elevata che l’amministrazione Biden ha comunicato molto chiaramente alla controparte cinese che le relazioni sino-americane non potranno migliorare finché il regime cinese non metterà fine alla coercizione economica nei confronti dell’Australia.
Siamo alla fine di questa panoramica che ci fornisce una risposta molto chiara alla domanda iniziale: tenere testa a Pechino costa, e costa molto caro per quei paesi che dipendono economicamente dalla Cina, in un modo o nell’altro; il caso australiano, come lo abbiamo definito, ce ne dà la prova.
Se l’Occidente vuole restare libero e democratico deve procedere ad una graduale ma risoluta separazione della propria economia da quella cinese.
È il momento di trovare nuovi fornitori di materie prime per le nostre industrie e nuovi clienti per i nostri prodotti.
È anche il momento di prendere esempio dall’Australia e varare nuove leggi sull’interferenze straniere e fornire ai cittadini gli strumenti per riconoscere campagne di disinformazione e propaganda.
I principi democratici sui cui si basa la nostra società sono il nostro punto di forza, ma possono essere anche la nostra più grande debolezza se non siamo in grado di proteggere il dibattito pubblico ed i processi democratici dagli attacchi di paesi avversari che hanno una visione del mondo e della società completamente opposta alla nostra.