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Il Califfo ha già vinto (se l’America non cambia strategia)

Bengasi Tripoli

Al contrario di quanto si possa pensare il titolo di questo post non è provocatorio, ma sintetizza la possibile evoluzione dello scontro tra l’America e lo Stato Islamico, se l’amministrazione americana persevererà nella strategia degli attacchi aerei sporadici contro i bersagli del Califfato.
In questo mese di azioni aeree sono stati distrutti numerosi veicoli blindati e pezzi di artiglieria, ma i miliziani, nonostante ciò, avanzano giorno dopo giorno.
Ma non vogliamo focalizzarci sui successi, o gli insuccessi, tattici americani nell’area, vogliamo analizzare la strategia messa in atto dalla Casa Bianca e gli aspetti negativi che la caratterizzano.
In primo luogo in Siria i miliziani dello Stato Islamico non hanno veri rivali sul terreno in quanto i curdi sono, per tradizione e oggi per necessità, impegnati a difendere le città della loro area etnica e non hanno nè i mezzi nè la volontà di avanzare verso le aree sunnite nel pieno controllo del Califfato. Sempre in Siria i ribelli non appartenenti allo Stato Islamico, e facenti parte delle numerose formazioni sorte dopo la disgregazione del Free Syrian Army (FSA), sono impegnate nel combattere le forze governative impiegando massicciamente armamento di precisione, seppur ormai obsoleto, come i missili TOW, che stanno infliggendo gravi perdite alle formazioni fedeli ad Al Assad.
La scelta di continuare ad attaccare le forze del governo di Damasco invece di impiegare i ribelli nell’arrestare l’avanzata dello Stato Islamico, determina il fatto che governativi e ribelli ex FSA combattono tra loro e nessuna di queste due forze ha mezzi e uomini disponibili per ingaggiare l’avanzata del Califfato.
In Irak gli uomini di Al Baghdadi continuano a minacciare l’intera provincia di Al Anbar, e nella giornata di ieri drappelli di terroristi si sono avvicinati a meno di 25 chilometri dall’aeroporto internazionale di Baghdad suscitando una reazione americana che stentiamo perfino a definire blanda. Un portavoce del Pentagono ha infatti affermato che le forze americane hanno indotto gli islamisti ad arretrare facendo eseguire ad un elicottero Apache alcuni passaggi a bassa quota (ottima tattica per farsi sparare addosso con un MANPADS ma che non pensiamo abbia veramente scoraggiato gli uomini del Califfato).
A nord i curdi cercano di organizzare un esercito di proporzioni atte a fronteggiare efficacemente un attacco su larga scala dello Stato Islamico, tuttavia i Peshmerga curdi non avranno mai numeri sufficienti per eseguire un contrattacco in grado di eliminare la minaccia dello Stato Islamico in maniera definitiva.
Un capitolo a parte merita il comportamento turco, un comportamento che già all’inizio della crisi aveva attirato l’attenzione del nostro gruppo. L’impressione di GeopoliticalCenter è che la Turchia non sarebbe intervenuta in difesa dei curdi, nemmeno di quelli della città di Kobane, fino a quando la città non fosse caduta nelle mani degli islamisti. Sebbene le nostre siano solo congetture, sembra possibile che tra il governo di Ankara e il Califfo dello Stato Islamico possa essere stato raggiunto un patto, un patto segreto che ha portato come primo fatto evidente la liberazione degli oltre 40 diplomatici turchi, e loro famigliari, catturati dagli uomini di Al Baghdadi a Mosul.
Una liberazione surreale, ostaggi in ottimo stato, trasportati su autobus fino al confine turco e accolti da una delegazione governativa appena oltre il confine. Cosa ha offerto in cambio la Turchia al Califfo, fin dove si è spinto il governo di Ankara in questa trattativa e, infine, la liberazione degli ostaggi turchi ha segnato la fine di una “missione diplomatica”, oppure ha segnato l’inizio di una collaborazione a più ampio raggio tra Ankara e il Califfato?
La questione è tanto nebulosa quanto seria. La Turchia è un paese della NATO, ma che non mette a disposizione le proprie basi per le operazioni contro lo Stato Islamico. La Turchia avrebbe liberato decine di combattenti dello Stato Islamico presenti in Turchia e ne avrebbe non impedito il transito lungo il confine con la Siria, mentre le autorità turche cercano in ogni modo di bloccare il transito dei curdi che vogliono recarsi a Kobane per difendere la città.
E‘ come se, nelle pieghe della geopolitica ottomanocentrica di Erdogan, la Turchia avesse riproposto con il Califfato una versione moderna del patto Molotov-Ribbentrop, con i curdi al posto dei polacchi e Al Assad al posto dei francesi.
L’impressione, la nostra personale impressione, è che la Turchia voglia avere un ruolo attivo nella guerra di Siria, ma non per sconfiggere gli islamisti quanto per spartirsi con lo Stato Islamico il nord del paese che era governato da Al Assad e, successivamente, determinare il crollo del regime Alawita, dando vita ad un tutti contro tutti dove le monarchie sunnite darebbero forte sostegno ai ribelli sunniti, l’Iran farebbe di tutto per mantenere in vita il regime di Al Assad e i turchi si metterebbero in una posizione terza inconciliabile con ognuna delle altre due.
Se questo fosse realmente il quadro della situazione gli Stati Uniti, con la loro strategia rischiano di generare una guerra perpetua in grado di destabilizzare Libano e Giordania e coinvolgere nel conflitto l’Egitto al fianco della monarchia Ashemita giordana.
In questo momento l’America sta rischiando però di perdere la fiducia e il sostegno dell’unica etnia che nella regione ha ancora mantenuto un minimo di fiducia in Washington e cioè i curdi, quei curdi che grazie agli Usa (di Bush) hanno avuto finalmente una loro regione autonoma e che ora si sentono traditi da promesse non mantenute in nome di una strategia, a nostro avviso e per quanto esposto, fallimentare.
Gli Stati Uniti se vogliono vincere questa battaglia hanno una sola possibilità, scendere a patti con Al Assad, coinvolgere l’Egitto nella mediazione, mandare truppe di terra in Irak e dare vita ad uno stato curdo tra Siria ed Irak, in caso contrario la regione si trasformerà in un regno di guerra, morte ed estremismo che metterà in pericolo non solo il medio oriente, ma la stessa europa.