“Il mio mandato come Primo Ministro, pur breve, è stato un successo. Ho svolto le mie mansioni in maniera appropriata ed onorevolmente, votandovi cuore ed anima. Il fatto che sia rimasto in carica per un così effimero intervallo temporale è dovuto ad una necessità e non ad una mia unilaterale decisione. Qualunque cosa succederà, continuerò la mia relazione con il Presidente della Repubblica cui sarò sempre grato […] ma non posso continuare ad essere il leader dell’AKP in assenza di consenso.” Il discorso di congedo, emozionante e sommario dei 20 mesi spesi a capo del Governo, con il quale Ahmet Davutoğlu, Primo Ministro turco dall’agosto 2014, ha annunciato le sue dimissioni causa un terremoto politico. Il fronte governativo sembra aver perso la propria compattezza, proprio nel momento in cui le sfide di politica estera rendono imprescindibile unità di intenti. L’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, islamista moderato ed ininterrottamente al potere dal 2002 terrà il prossimo 22 maggio un congresso straordinario per eleggere un nuovo Presidente e conseguentemente un nuovo Primo Ministro entro e non oltre il 6 giugno, data di inizio del Ramadan.
Tutto ebbe inizio il 14 agosto 2014: Recep Tayyip Erdoğan cede la leadership del partito di maggioranza a “suo fratello” Davutoğlu, al fine di essere eletto Presidente della Repubblica, in conformità con i dettami della Carta Costituzionale che non permette al capo dello Stato di avere legami con alcuna formazione partitica. Accademico, universalmente riconosciuto come la mente dietro il risveglio globale e l’attivismo diplomatico della Turchia, Ahmet Davutoğlu aveva iniziato la collaborazione con il “Sultano” nel lontano 2003 come capo consigliere ed era stato investito del dicastero degli Affari Esteri nel 2009 pur non essendo membro del Parlamento. C’è lui dietro la strategia del neo-ottomanesimo, l’indirizzo di politica estera dell’ultima decade che ha permesso alla Sublime Porta di ampliare i propri margini di manovra nel Levante (ma non solo) e spezzare i vincoli con gli alleati occidentali. L’inattesa e celere ascesa ai vertici istituzionali, con cui Davutoğlu riuscì a scalzare molti fondatori e membri storici dell’AKP, aveva già causato smottamenti interni; passare in pochi anni dalle cattedre universitarie alle più importanti cariche istituzionali per volere stesso di Erdogan comportava inevitabilmente dei rischi. Alcuni errori di valutazione e l’elaborazione di ambigue iniziative in politica estera, poi, avevano portato all’isolamento internazionale della Turchia; il partito avrebbe presentato all’ex docente un conto salato, prima o poi. L’idea di essere un mero cane da guardia incaricato di tenere a bada l’AKP al posto del Presidente della Repubblica era inaccettabile per Davutoğlu: se il meccanismo ha temporaneamente funzionato, il premier, detenente sempre maggior autonomia ed indipendenza, si dimostrava restio a prendere ordini. Scelto per la lealtà e fedeltà ad Erdoğan e, soprattutto, per la sua caratura accademica che avrebbe dovuto impiegare per far approvare la riforma costituzionale – la quale, attraverso il rafforzamento delle prerogative a disposizione dell’esecutivo, avrebbe trasformato la Turchia in un forte sistema presidenziale -, i rapporti tra il Presidente e l’ex “delfino” si erano esacerbati per i dissensi circa un atteggiamento eccessivamente filo-occidentale, per la questione dell’abolizione dell’immunità parlamentare e per la linea edulcorata nei confronti dell’Europa su immigrazione e ingresso della Turchia nell’Unione (sbandierata come un successo dal premier ma sminuita dal capo dello Stato). La decisione di togliere al segretario-premier la nomina di 50 coordinatori provinciali dell’AKP per affidarla a un comitato interno è stato il chiaro segnale di come le divergenze fossero ormai inconciliabili.
Seppur non idilliaci, nessuno poteva prevedere che la relazione tra i due “fratelli” precipitasse in questo modo. La sfida era tra due visioni di interpretare il futuro di un paese dalle ingenti potenzialità: Davutoğlu, conservatore piuttosto moderato nei costumi e liberista in economia, ha sempre goduto di forte propensione al dialogo, credibilità ed autorevolezza nello scenario internazionale; Erdoğan fautore di una politica di potenza, interventista all’estero ed autoritaria (in alcune forme dell’esercizio delle sue funzioni e del consolidamento del potere) in casa, dalle sproporzionate ambizioni e di sfida nei confronti delle potenze occidentali e dei partner NATO. Un braccio di ferro che il Primo Ministro, convinto di poter esercitare costituzionalmente il suo mandato possedendo una legittimazione popolare conseguentemente alla conferma ottenuta nelle elezioni del novembre 2015 – alle quali il “Sultano” partecipò parzialmente -, era consapevole di non poter vincere; con molta maturità, dunque, ha deciso di fare un passo indietro. Un fedele sostenitore da oltre sette anni liquidato a seguito di un colloquio nel palazzo presidenziale di Ankara durato 1 ora e 40 minuti. Il messaggio è chiaro e fuorviante: nessuno, proprio nessuno è al sicuro. Si può, anzi, affermare che la Turchia abbia de facto adottato un presidenzialismo formale plasmato sulle volontà del “Sultano”. Le dimissioni di Davutoğlu, grande sostenitore della linea europeista, hanno destato preoccupazione nell’Europa tutta (ed anche nella NATO) – proprio poche ore dopo che la Commissione Europea si era pronunciata a favore dell’abolizione dei visti per i cittadini turchi che si recano nel Vecchio Continente per motivi di lavoro; sia i vertici delle istituzioni comunitarie che alcuni politici tedeschi hanno, infatti, espresso il loro rammarico. La Cancelliera Merkel sperava di poter rafforzare la corrente europeista che faceva capo al premier e proseguire sulla linea intrapresa nella gestione della crisi umanitaria dei migranti. Non è errato presumere, nonostante sia difficile effettuare previsioni sulla stabilità della situazione interna e sulle sorti del neo-ottomanesimo, che la Turchia investirà ora una ancor più risorse nella proiezione egemonica di sempre maggior influenza nel Medio Oriente, con l’inasprimento delle posizioni nei confronti della minoranza curda. La priorità per la Sublime Porta rimane, infatti, quella di rovesciare il governo di Assad ed impedire la formazione di un’autonoma entità politica che potrebbe mettere ancor più a repentaglio la saldezza della frontiera sud-orientale della Turchia (nella quale l’esercito di Ankara è permanentemente contrapposto al PKK); le posizioni radicali di Erdoğan, inoltre, riflettono le richieste dei militari, consapevoli che per ottenere il controllo dell’ingarbugliata situazione nella Siria settentrionale occorrerebbe debellare i peshmerga. E’ stata anche vagliata l’ipotesi di elezioni anticipate, nonostante la situazione politica sfavorevole, la recrudescenza delle azioni repressive nei confronti degli organi di stampa e del mondo accademico e l’incombente emergenza terrorismo. Proprio quest’ultimo fattore, congiuntamente al deterioramento dei rapporti con Mosca, sembra aver inferto un duro colpo all’economia del Paese (nonostante le positive premesse): inoltre, i mercati hanno già punito la crisi di governo con la lira turca che ha perso in queste ore il 4% del suo valore rispetto al dollaro e la Borsa ha perso oltre il 2%. L’AKP vorrà davvero mettersi nuovamente in gioco per la terza tornata elettorale da giugno 2015? Nel frattempo, circolano le voci dei papabili successori alla carica di Primo Ministro, personalità vicini e fedeli al “Sultano”: Binali Yıldırım, il ministro dei Trasporti già coinvolto nello scandalo corruzione del 2013; Berat Albayrak, genero del Presidente, ministro dell’energia e straordinario conoscitore degli interessi geostrategici ed energetici della Turchia – con il “difetto” di essere anti-russo, prerogative pericolosa in quest’era di forti tensioni tra Ankara e Mosca. Infine Bekir Bozdag, il ministro della Giustizia. Presto avremo il responso.
374
0