Il 21 marzo prossimo il presidente cinese Xi sarà in Italia, non certo per una visita di cortesia ma per tentare un assalto al cuore stesso dell’Occidente, cercando come accesso l’anello debole del G7, debole per economia, debole per la sua odierna struttura industriale, debole per demografia e debole per la tipologia di governo che la guida.
La Cina ha un preminente interesse strategico nel suo espansionismo: garantirsi mercati che non applichino dazi nel prossimo futuro e che siano quindi sicuri luoghi di approdo per le merci cinesi alla luce di un mercato occidentale che sempre più è propenso a tutelare la propria residua protezione industriale contro il dumping applicato sistematicamente da Pechino per surclassare i concorrenti che posseggono fabbriche in Europa o America.
Ma questo non è l’unico obbiettivo strategico di Pechino, ne esiste un secondo parimenti importante. Il secondo obiettivo cinese è quello di prendere in mano le infrastrutture di telecomunicazione 5G. Questa non è una teoria ma un fatto evidente, così come è evidente che le sperimentazioni su suolo nazionale della tecnologia 5G avviene ad oggi con hardware di una primaria casa di telecomunicazioni cinese.
E’ indubbio che la Cina non possa essere dimenticata o ignorata, la sua popolazione composta da un miliardo di individui rappresenta poco meno di un sesto dell’intera umanità. Un accordo commerciale con la Cina avrebbe quindi un senso compiuto, ma che tipo di accordo? Non certamente un accordo nel quale l’Italia risulterebbe solo come il terminale delle industrie cinesi, oppure un accordo dove il nostro export sarebbe rappresentato unicamente dall’alta tecnologia poi utilizzata dalla Cina per fare concorrenza alle nostre imprese. Non è utile nemmeno un accordo nel quale i nostri imprenditori dovessero avere vie preferenziali per produrre in Cina, la nostra nazione non ne trarrebbe se non marginali risultati.
La Cina, a differenza nostra, ha molto chiaro il suo obiettivo strategico: continuare ad esportare beni alla massima capacità possibile, diventare protagonista egemonico della logistica intercontinentale, navale e terrestre, recuperare in ogni modo idee e tecnologie innovative.
La Cina non pensa ad un rapporto paritario, ma ragiona in termini di impero, dove naturalmente chi detta le condizioni e chi guadagna preminentemente è Pechino, mentre i partner della famosa nuova via della seta sono unicamente dei mezzi per permettere la creazione di un moderno impero cinese, dominato dalla dittatura del partito unico, caratterizzato dalla mancanza di diritti umani fondamentali, e che vedrà nella forza militare un pilastro del dominio globale immaginato da Pechino. Essere il grimaldello dalla Cina all’interno del G7 e all’interno del cuore stesso della società occidentale è una prospettiva per noi nefasta e non giustificabile nemmeno con la promessa di acquisti massicci di titoli di stato italiani da parte dei fondi sovrani di Pechino. Vogliamo vendere i nostri valori per una temporanea illusione di disponibilità economica? Vogliamo essere soggetti all’influenza pervasiva di Pechino in nome dell’idea distorta di avere a disposizione una temporanea riduzione degli interessi che paghiamo per il nostro debito pubblico?
Ma la domanda che ogni italiano dovrebbe farsi è: noi ci consideriamo occidentali, oppure aspiriamo a essere parte del Celeste Impero di Xi e della sua eredità dittatoriale comunista macchiata ancora dal sangue delle vittime di piazza Tien An Men? Si ancora parliamo di Piazza Tien An Men e di quei giovani che guardavano a noi non come inferiori prede economiche, ma come a popoli ed ideali di libertà!