Una telefonata tra Putin ed Erdogan ha apparentemente messo fine a mesi di altissima tensione tra la Federazione Russa e la Turchia, ma in realtà quella telefonata, dopo la quale sono state recocate le sanzioni russe ai prodotti turchi e le restrizioni al turismo verso le località di villeggiatura della Turchia, ha segnato l’inizio di un percorso politico per una soluzione politica in terra di Siria. Una soluzione favorita proprio dalla crisi tra Russia e Turchia successiva all’abbattimento (poi dichiarato “involontario”) di un caccia SU-24 russo che operava al confine tra Siria e Turchia violando ripetutamente, ma per alcuni secondi e senza essere una minaccia per Ankara, lo spazio aereo della Turchia. Questo evento ha costretto le diplomazie dei due paesi a dialogare e a tentare, un approccio meno militare e più “politico” per tentare di superare la crisi siriana.
Un ulteriore elemento di stabilità, è comparso sulla scena internazionale quando in seguito alle azioni militari russe che hanno interrotto il traffico di petrolio del Califfato e l’impegno militare americano che ha impedito l’arrivo a Baghdad delle milizie di IS, lo stato Islamico ha iniziato ad usare l’arma del terrorismo contro alcuni suoi stessi “sponsor” della prima ora, come ad esempio la Turchia, al fine di costringere i turchi a mantenere i livelli finanziamento precedenti gli interventi russi e americani.
Ma i turchi non hanno accettato il ricatto dello stato islamico, temendo inoltre che questa creatura potesse definitivamente sfuggirgli di mano. Così, come spesso accade in Medio Oriente, sulla base dei comuni problemi, più che dei comuni interessi, si è creata una coalizione, una coalizione che comprende Turchia, Russia, Usa, Siria ed Israele. Ed è proprio lo stato ebraico uno dei principali mediatori tra le parti in conflitto, in particolar modo dopo la sostituzione ministro della difesa Ya’alon con il russofono Liebermann, il quale da sempre è fautore di una linea di dialogo parallelo con gli Stati Uniti e con la Russia.
Israele ha da sempre un interesse strategico nella permanenza al potere, a patto che sia un potere indebolito, di Al Assad. Gerusalemme vede come il peggior scenario possibile la presenza e la vittoria del califfato statuale in Siria, ed oggi teme allo stesso modo la presa di potere dell’Iran a Damasco. Vittoria iraniana che concederebbe all’Iran il possesso di quel “corridoio sciita” dalla Persia al Mediterraneo che è un obiettivo strategico maggiore della geopolitica iraniana e che consentirebbe all’Iran di elevarsi in maniera definitiva al rango di potenza sovraregionale in attesa di divenire potenza nucleare.
Unico vero punto critico di questo accordo politico per la Siria è l’aperta contrarietà dell’Iran a tale progetto, in quanto impedirebbe proprio la creazione del “corridoio sciita” tanto caro a Teheran.
Anche per questo motivo l’Iran rafforza la sua presenza militare in siria, fatto evidente osservando il ponte aereo in atto in questi giorni tra Teheran e la Siria. Allo stesso tempo è evidente la riduzione di coordinamento con le forze aeree Russe nelle operazioni congiunte, operazioni offensive ormai in mano solo alla componente facente capo all’Iran e all’hezbollah libanese.
Questa differenza di visione strategica tra Russia ed Iran, dove la Russia pensa ad una soluzione politica, mentre gli iraniani premono con i fatti per una soluzione più militare porrà nei prossimi mesi Al Assad davanti ad un dilemma che deciderà i destini suoi e della Siria intera: scegliere la linea militare iraniana o l’accordo politico proposto da Russia – Usa – Turchia e Israele?
A nostro avviso Al Assad sceglierà l’accordo politico, a patto però di restare al potere fino alle prossime elezioni presidenziali, ben conscio che in assenza di un accordo politico la Russia potrebbe premere per la sua destituzione, mentre in caso di vittoria degli iraniani egli potrebbe essere relegalo ad un fantoccio nelle mani di Teheran.
Ricordate però che nulla è “eterno” e ciò vale ancor di più in terra di Siria, ricordatelo sempre.