Bahrein, Qatar, Yemen, Iraq, Sudan, Siria, Libano: cosa hanno in comune queste nazioni? La presenza iraniana, in ottica anti-sunnita e anti-saudita.
L’espansionismo iraniano ha una caratterizzazione geopolitica ben definita, e non è frutto del caso o della situazione contingente, ma segue linee geografiche e strategiche funzionali a rendere la teocrazia punto di riferimento di tutto il Medio Oriente Islamico, ed ha come ultimo scopo la destabilizzazione della Penisola Araba e la presa del potere in Arabia Saudita, fatto che determinerebbe il controllo dei luoghi Santi di Medina e Mecca, nonché il controllo assoluto dei ricchi giacimenti arabi.
Il piano iraniano va però inquadrato nel suo giusto orizzonte temporale. Inizieremo la nostra analisi degli obiettivi a breve termine, per poi passare a quelli a medio termine (circa 7/12 anni) per poi terminare con la presa del potere sui luoghi santi arabi.
L’Iran da sempre ripete che la Repubblica Islamica non ha intenti offensivi, che non cerca la guerra come strumento politico, ma queste affermazioni sono vere solo in parte. Sì perché, fino ad oggi, l’Iran non ha preso parte in prima persona ad azioni militari di tipo “espansionistico”, tuttavia ha sempre utilizzato fazioni od etnie legate a Teheran per espandere il proprio ruolo politico, la propria influenza economica e far sì che la volontà degli Ayatollah diventi determinante nelle scelte politiche di molti paesi della regione mediorientale.
Nel breve termine l’Iran punta a due obiettivi. Il primo è il mantenimento dello status quo nella regione, con la presenza determinante in Libano dell’Hezbollah, in Yemen degli Houti, in Bahrein di una opposizione “dormiente” ma pronta alla guerriglia urbana e a rafforzare i legami con il Qatar e con l’Irak. Il secondo è il controllo completo sulla Siria, riducendo la libertà decisionale di Al Assad e del suo gruppo di potere. Con al Al Assad la Sira è stata in passato una nazione laica, che dopo il 2006 ha lavorato per la stabilità della regione. Oggi se Al Assad si limitasse ad essere un esecutore degli ordini di Teheran la situazione potrebbe cambiare radicalmente. Alcuni dei segnali dell’aumentata influenza iraniana, seppur indiretti, che potremmo osservare saranno l’aumento dei traffici di armi verso la valle della Bekaa, l’estromissione di cristiani e sunniti dal governo del paese e una modifica del ruolo della donna a Damasco, iniziando proprio dalla famiglia di Al Assad limitando le apparizioni in pubblico ed il ruolo di Asma, moglie del presidente siriano.
Sul medio termine l’Iran punta invece al controllo totale su tutti i paesi dove è presente una significativa presenza sciita. I proventi della rinata economia iraniana saranno in buona parte destinati al finanziamento degli alleati sciiti in Medio Oriente, seguendo quello che noi definiamo “modello Hezbollah”. Secondo questo schema applicato con grande successo in Libano, i partiti che fanno capo a Teheran avranno il duplice mandato di evolvere verso la creazione di una milizia paramilitare più efficiente rispetto alle forze armate regolari del paese di appartenenza, ma allo stesso stesso tempo il partito sciita locale dovrà diventare centrale nella gestione dello “stato sociale”. Sussidi ai meno abbienti, pensioni per i caduti in battaglia, educazione (naturalmente politicizzata) per tutti i giovanissimi nati e cresciuti nel paese, assistenza sanitaria e sussidi alimentari. In questo moderno “Panem et Circenses” made in Teheran dove il circenses è sostituito dalla forza delle armi, si punta a ridurre l’opposizione interna alla presa del potere da parte degli sciiti, formare una base di consenso che abbia come fondamenta lo “stato sociale”, e garantire la “capacità diplomatica” mediante la presenza di una adeguata milizia paramilitare.
Questo tipo di operazione potrebbe essere messa in campo facilmente in Irak, in Yemen, in Bahrein ed in Oman, mentre dovrebbe essere organizzata in maniera più delicata in Kuwait, Qatar, e Oman.
Un discorso a parte nel medio termine lo merita l’approccio iraniano all’Africa, ed in particolare all’Egitto e al Sudan.
Infatti un’ulteriore esigenza strategica dell’Iran è il controllo delle vie commerciali regionali di primaria importanza. Parliamo degli Stretti di Hormuz, Bab El Mandeb, e del Canale di Suez.
Hormuz è già sotto il controllo dell’Iran che è in grado di chiuderlo (anche se temporaneamente) a suo piacimento. Bab el Mandeb è compreso tra lo Yemen ed il Corno d’Africa. Nello Yemen i ribelli filo-iraniani erano fino a pochi mesi fa nel controllo della sponda orientale dello Stretto che poteva essere messo sotto la minaccia dei sistemi antimissile iraniani presenti nell’area. Ora l’avanzata della coalizione saudita ha allontanato i filo-iraniani da questa regione strategica. Le chiavi del Canale di Suez si trovano al Cairo, e senza quelle chiavi le navi militari iraniane non possono attraversare la via d’acqua controllata dell’Egitto, così come in caso di guerra tra Arabia Saudita ed Iran nemmeno le merci iraniane potranno passare il canale controllato del Generale El Sisi.
Grazie alla presa di potere della Fratellanza Mussulmana per circa due anni gli iraniani hanno avuto luce verde a Suez ed in rare occasioni le navi militari di Teheran si sono affacciate in Mediterraneo per poi approdare in Siria. Oggi però con la controrivoluzione del Generale El Sisi l’Iran non ha più accesso al Mediterraneo e la caduta del governo egiziano è una priorità dell’Iran che potrebbe cercare in ogni modo di finanziare ed armare l’opposizione anti-governativa ed anti-saudita personificata dalla Fratellanza Mussulmana, ricorrendo ad ogni mezzo, lecito o meno lecito.
La terza fase prevederebbe infine la presa di controllo dei luoghi santi dell’Islam nella Penisola Araba: Mecca e Medina, e con essi i giacimenti dell’Arabia Saudita. Questa fase dovrà essere supportata da una capacità nucleare di tipo strategico, che l’Iran potrebbe acquisire entro il 2025 quando le limitazioni relative al programma atomico iraniano saranno diventate abbastanza lasche da permettere zone d’ombra per lo sviluppo delle armi atomiche. Per quell’anno anche le forze convenzionali iraniane saranno in buona parte rammodernate, permettendo a Teheran di violare senza timore di rappresaglia l’accordo firmato ai tempi dell’amministrazione Obama.
Con Irak, Yemen, Sira, Bahrein, Qatar, Oman e Sudan sotto il controllo degli Ayatollah, ed una curva demografica della parte sciita ben più esuberante rispetto alle nazioni sunnite, il tentativo di far implodere la monarchia saudita non è un’ipotesi inverosimile; questo in particolar modo se i successori di Donald Trump dovessero proseguire e perseguire la via tracciata da Obama, una via di sostanziale ritiro dal teatro mediorientale, in favore di un nuovo assetto regionale che ha come cardine Teheran e non Riyadh oppure Gerusalemme.
Gerusalemme, con la sua moschea, eretta dove sorgeva il Tempio Ebraico: al-Masjid al-Aqṣā, l’ultima moschea, dove il Profeta Maometto ascese al cielo, l’ultima moschea che la teocrazia iraniana potrebbe desiderare di avere sotto il proprio controllo per diventare custode di tutti i luoghi santi dell’Islam e ribadire nei fatti la superiorità degli sciiti sui sunniti, che fino ad oggi hanno avuto il controllo dei tre luoghi più santi della religione islamica.
Questa lettura che incrocia fede e potere non è così distante dal modo di pensare della teocrazia di Teheran, dove potere temporale e potere spirituale si fondono e si mischiano dando origine ad una forma di governo del tutto peculiare.
L’aspetto messianico che emerge da questa nostra analisi pervade i progetti a lungo termine della Repubblica Islamica dal giorno della sua fondazione e non importa se serviranno venti, trenta o quaranta anni per cercare di portare a termine questo piano, perché è una missione divina quella che chi comanda a Teheran pensa di dover portare a compimento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, costi quel che costi.