Gaza: la vita non conta
A Gaza la vita non conta, almeno non conta certo in questi giorni, nei quali Hamas ha proclamato una protesta ad oltranza chiamata la “marcia del ritorno”. Il “ritorno” si riferisce al fatto che 70 anni fa, dopo la dichiarazione di indipendenza di Israele, seguita alla guerra arabo-israeliana del 1948, decine di migliaia di palestinesi dovettero lasciare la terra dove erano nati e cresciuti, per stabilirsi in Giordania, in Cisgiordania, a Gaza in Libano.
Oggi Hamas, che controlla integralmente Gaza, ha lanciato questa marcia del ritorno che si prefigge nei fatti la violazione dei confini di Israele per riappropriarsi delle terre che prima del 1948 erano nella disponibilità dei palestinesi sotto il mandato britannico.
Le manifestazioni della “marcia del ritorno” prevedono che migliaia di abitanti di Gaza tentino di raggiungere, danneggiare e superare i reticolati di confine che separano Gaza da Israele.
Questo tipo di protesta non è per nulla “pacifica”, né nei modi né negli obiettivi. Raggiungere, danneggiare e superare i reticolati è la precondizione affinché migliaia o decine di migliaia di palestinesi si possano riversare all’interno di Israele. A poche centinaia di metri dai reticolati, o al massimo entro due chilometri dagli stessi, si incontrano le prime comunità rurali ebraiche, che sarebbero obiettivo privilegiato dei “manifestanti” palestinesi. Cosa accadrebbe ai civili ebrei nel caso in cui migliaia di giovani palestinesi esaltati dalla retorica di Hamas e finanziati dai principali nemici internazionali di Israele dovessero raggiungere le suddette comunità rurali? Siamo certi che assisteremmo ad un bagno di sangue. In virtù di questo stesso ragionamento, ed al fine di evitare che centinaia di migliaia di abitanti di Gaza seguano l’esempio dei ventimila che oggi hanno assaltato la frontiera con Israele, l’esercito di Gerusalemme ha avuto l’ordine di cercare di disperdere i manifestanti con mezzi non letali e, se la minaccia diventava concreta per la sicurezza del confine, utilizzare proiettili letali.
Toccare il reticolato equivale a rischiare la propria vita. Dopo che nel 2000 parte della barriera fu abbattuta dai manifestati palestinesi durante l’intifada di Al Aqsa, l’esercito di Israele impedisce che i reticolati vengano toccati. La popolazione di Gaza conosce bene questa regola, volantini e manifesti lanciati dagli aerei israeliani lo ricordano a chi è presente oggi lungo il confine.
Questo fatto è più noto ancora ai responsabili delle proteste che sembrano incentivare comunque l’avanzata degli abitanti di Gaza verso ed oltre il confine con Israele.
La motivazione di questa strategia potrebbe essere duplice. La prima potrebbe essere quella di ingenerare un ampio sentimento di indignazione tra gli abitanti della Striscia e far sì che domani centinaia di migliaia di palestinesi tentino di portare a termine la “marcia del ritorno”. La seconda strategia potrebbe essere quella di aumentare la potenza della propaganda anti-israeliana in sede internazionale, descrivendo gli ebrei come sanguinari assassini e i cittadini di Gaza come pacifici esseri umani che protestano a mani alzate contro le armi di Tsahal.
Queste strategie funzionano solo ad un condizione: a patto che la vita, a Gaza, non valga nulla.
Oggi a Gaza sono morte oltre 50 persone e più di 1000 sono rimaste ferite secondo fonti sanitarie locali.